Ora al cinema il Risorgimento diventa kolossal

RomaÈ urgente ricordare chi siamo, da dove veniamo, noi italiani, mentre la memoria storica cola tra i buchi d’un disinteresse quotidiano per quanto sia passato, ancorché illustre e nuove masse migranti premono, surrogandoci. E se a un ventenne, oggi, dici: «Risorgimento», quello ti guarda confuso: c’è su YouTube? No, ma presto quel processo storico decisivo per la nascita in Italia di uno Stato unitario sarà al cinema con Noi credevamo, un (quasi) kolossal del regista napoletano Mario Martone, che ha raggruppato eccellenze di cinema e teatro, calandole in eccellenze della Storia nazionale. Parliamo di Giuseppe Mazzini, alias Toni Servillo, sempre più iconico, dopo Il divo; di Luca Zingaretti, cioè Francesco Crispi e di Luigi Lo Cascio, che, nella parte del leone, sarà l’insurrezionalista Domenico, carcerato per le sue idee politiche. E, poi, ancora, la brava Anna Bonaiuto, nelle crinoline della contessa Cristina di Belgioioso, l’eroina lombarda che con i suoi denari sostenne Mazzini e Cavour e, infine, Luca Barbareschi. Prodotto dalla Palomar, insieme a Rai Fiction, Rai Cinema e alla francese Les Films d’içi, con il contributo della Film Commission piemontese, Noi credevamo è liberamente tratto dall’omonimo romanzo storico di Anna Banti (1895-1985), la nostra Virginia Woolf, finita nel dimenticatoio, tant’è che non si trova alcun libro suo, né Mondadori ha ristampato Noi credevamo (datato 1967) per l’uscita del film. Si vede che è destino: abbiamo tante perle, ma le teniamo in cantina.
A marzo, quando il lavoro di Martone (qui pure sceneggiatore, con Giancarlo De Cataldo) andrà alla sbarra, vedremo se il Risorgimento, rivoluzione borghese per antonomasia e perciò attuale, nella prospettiva del difficile rapporto tra maggioranze e minoranze, saprà risvegliare curiosità, polemiche, vaghe passioni, venendo alle radici del presente. «Si parla tanto di radici e di quello che siamo, però si fa poco per ricostruirle», dice Luigi Lo Cascio mentre a Catania prova a teatro Diceria dell'untore di Gesualdo Bufalino, in vista del debutto (il 20). «Col film di Martone tentiamo una ricostruzione delle nostre radici, per non perdere la partita del confronto col nostro passato. Io stesso - dice l’attore - ho potuto leggere il bel romanzo della Banti soltanto perché il mio amico poeta Roberto Rossi Precerutti me l’ha regalato, scovandone una copia chissà dove... Al centro del racconto, al quale il film è fedele, si situa l’amicizia di tre ragazzi dell’Ottocento risorgimentale. Il sentimento di lealtà che li lega verrà messo a dura prova dagli obiettivi rivoluzionari», svela Lo Cascio, la cui «sicilianitudine» emerge, man mano che avanzano età e notorietà, come s’è visto in Baarìa.
«Accanto a questi tre ragazzi sconosciuti sfilano persone note: Mazzini, Cavour, Pisacane. I quali non sono soltanto nomi nelle nostre piazze, ma esseri umani vivi e dubbiosi, che Martone restituisce nella loro dimensione oggettiva. Durante il Risorgimento non tutti cercavano la stessa cosa. Lo spirito del film tenta di armonizzare gli ideali repubblicani con il concetto di Unità d’Italia, assecondando un impulso democratico, di giustizia sociale», spiega Luigi,che nella commedia allo Stabile di Catania s’aggira in una Sicilia «di memoria e di fiaba».
Com’è in uso nei film storici, dedicati al grande pubblico, anche in Noi credevamo la grande Storia si svolge attraverso le microstorie dei protagonisti. «Il mio Domenico? È uno delle tante, piccole persone sulle quali si erge quel colosso detto Risorgimento. Si tratta d’un ragazzo molto giovane, un mazziniano in clandestinità, un cospiratore per la più parte in carcere», anticipa l’attore, che ha girato tra Saluzzo e Castellabate, luoghi deputati alle lotte politiche di allora. «È stato difficile - conclude l’attore - concentrare in due ore tanti avvenimenti storici.

Nasceva la questione meridionale, per esempio. E Noi credevamo parla di chi credeva nell’abbattimento delle barriere tra Nord e Sud: perciò si offre allo sguardo dello spettatore, affinché tragga esso stesso un bilancio. Amaro, forse».

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