Ma ora diciamo la verità

Ma ora diciamo  la verità

Adesso vengano a dirci che era depresso pure Lapo Elkann, ci rivelino che viveva un momento difficile e che aveva perso un figlio o un amica o un dente del giudizio. Si commetta ancora una volta l’errore, ossia, di relegare la cocaina come un qualcosa che è altro da noi perché rappresenta in realtà una demarcazione tra il bene e i male, è il famoso spazzino dell’umanità che ammalia i perdenti anche se dovessimo scoprire che hanno le sembianze di vincenti assoluti come Lapo Elkann, o dell’attore Paolo Calissano, la modella Kate Moss, il presentatore Fiorello, insomma gente che non sembra vincente: lo è. Un inciso: esistono cocainomani depressi perché la depressione è un effetto a lungo termine di questa droga, ma non esistono depressi che in quanto tali diventano cocainomani: la cocaina esalta gli umori latenti e ne conseguirebbe che un depresso starebbe solo peggio, e ci mette pochissimo a capirlo. Eppure la china mediatica, l’analisi massima, è quella. Oh, certo, non mancano eserciti di menomati che in generale assumono droghe perché non ce la fanno, non ce la fanno in generale, dunque la sera non reggono se stessi e hanno bisogno di stemperarsi, affumicarsi, perdersi nello stordimento dello stare insieme pressati in una discoteca, evadere per non finire spiaccicati dal macigno della lucida realtà: ma sono perlopiù fumatori di hashish, gente che poi incolpa il nostro modello di sviluppo e vota gli ambientalisti. Qui si parla d’altro, non di vite segrete e personalità doppie, ma di vite intere che la cocaina accelera e concentra perché nell’ottica di chi la prende non serve a fuggire la realtà, ma ad abbracciarla, nuotarvici, lavorare, socializzare, essere brillanti e pieni di sé nonostante la stanchezza, essere come spesso ti vuole questo sistema mass-mediatico e non solo quello.
La cocaina è la droga di chi ufficialmente non ne ha bisogno, di chi racconta a se stesso, e agli altri, che la gestirà esattamente come un bevitore di cicchetti serali gestisce l’alcol, e che figurati se lui finirà alcolizzato: sarebbe come se Lapo Elkann finisse in terapia per cocaina. Impossibile. E invece la droga è dietro l’angolo, ed è l’assunzione che se ne può fare a essere leggera o pesante: lo sanno modelle come professionisti d’ogni estrazione, e avvocati, giornalisti, manager e persino ­ visto coi miei occhi ­ un magistrato, e tutto in un clima di normalità assoluta, lontana da qualsivoglia atmosfera proibita o carbonara, semmai permeata della falsa coscienza secondo la quale ciascuno è artefice del proprio destino e segue la regola dei devianti perbene: fai quel che vuoi, ma attento, noi non ti copriremo, abbiamo famiglia e spesso anche dei figli, non siamo pezzenti con una siringa infilata nel braccio. Ma non ci sono solamente i limiti della propria coscienza: ci sono quelli pubblici e addirittura etici che uno Stato moderno, anche il più liberale, deve giocoforza stabilire. E al tempo stesso non c’è però nessuna legge, buona o cattiva, che non debba tener conto delle consuetudini autentiche: dunque raccontiamocela giusta, partiamo da un dato reale che meramente è questo: la droga, o certa droga, non solo esiste, ma esiste da sempre e la gente la prende da qualche millennio perché piace. Il dettaglio è che fa molto, molto male: ciò che un tempo semplicemente non si sapeva ma che oggi, nonostante tutto, si seguita a ignorare se non in termini generici, che sanno più di pedagogia sociale o di chiacchiera sociologica che non di corretta informazione scientifica, di replica argomentata e puntuale circa le convinzioni che i dediti alle droghe si raccontano tra una tirata e l’altra. Non possiamo continuare a pensare che per esempio Lapo Elkann o Paolo Calissano, attore laureato con un master negli Usa, fossero solo degli stupidi magari poco istruiti. La cocaina era nella Coca-Cola sino al 1901 ed era reclamizzata proprio per questo, la prendevano i gesuiti in America Latina, la prendevano Pio X e Leone XIII e così pure gli Zar delle Russie, i principi del Galles, i sovrani di Svezia e di Norvegia, Thomas Alva Edison, i fratelli Lumière, persino Sigmund Freud che scrisse L'interpretazione dei sogni assumendo qualcosa come cinque grammi di cocaina al giorno; non parliamo della cocaina elargita agli eserciti canadese e tedesco, degli anni Settanta quando la cocaina era celebrata sul New York Times (pur proibita) e quando a sostenere la liberalizzazione della cocaina e della marijuana non era Bob Marley, ma una lobby in cui primeggiava la Fondazione Ford. Nella classificazione statunitense delle droghe pericolose, datata 1971, la cocaina neppure c'era: è lo stesso anno in cui Peter Burne, lo psichiatra incaricato di dirigere il programma statale per la lotta alla droga, fu visto sniffare pubblicamente a una festa ufficiale con seicento invitati: che cosa è cambiato? È cambiato il progresso scientifico, gli studi, le verità non sommarie che andrebbero pacatamente spiegate anziché mascherarle da predica generica, è cambiato ciò che ha trasformato la nocività di certe droghe in una sentenza della Storia prima che della scienza medica. L’indirizzo civico di molte nazioni, Italia compresa, seguita tuttavia a prediligere moniti di principio oppure a raccontarti che la droga basta guardarla per morire all’istante.
È in questa dicotomia che sguazza l’assuntore occasionale (sinché lo è) che si fuma una canna o tira una striscia, stimolato da certa disinvoltura ambientale sino a dirsi: sono tutte balle, non è vero niente, lo dicono perché devono dirlo. Di questo paradosso, si perdoni il ricordo personale, ebbi a discutere con il compianto Guido Vergani che era uno dei pochi giornalisti famosi che si occupò del pianeta droga in termini consapevoli: fu lui, anche per iscritto, a biasimare come lo stimato ministro Umberto Veronesi, e non quindi un politico prestato alla Sanità, avesse pubblicamente dichiarato che «l'ecstasy fa pochi morti ogni anno» come se le pillole anfetaminiche potessero essere annoverate tra le droghe leggere, come se l’abuso ­ che è il problema principale ­ potesse accompagnarsi al concetto di leggerezza.
Solo un mese dopo, nel gennaio 2001, alla prima Conferenza nazionale sulla salute mentale, peraltro inaugurata da una relazione di Veronesi, psichiatri d’ogni ordine raccontarono come fossero in aumento ragazzi con gravi danni neurologici e psichici provocati dall'assunzione di droghe chimiche; il presidente dell'Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale, Ernesto Muggia, spiegò che droghe come la cocaina e l'ecstasy «funzionano da attivatori di patologie psichiatriche, determinando crisi acute». Perché è questo il rischio: non tanto che l’hashish venga equiparato alla cocaina, ma che la cocaina venga equiparata all’hashish, ossia che si abbassi sempre più la soglia della riprovazione sociale nei confronti di trasgressioni che paiano ciascuna uguale all’altra, l’alcol a uno spinello, uno spinello a una striscia di cocaina, sino, ecco, a una pera di eroina: perché tutta la droga fa male, sì, ma forse, ma insomma, dipende.
Ecco, non è vero che dipende.

Fa male, punto, e ciò andrebbe divulgato per bene, senza improbabili toni apocalittici, e però a parlarne in televisione mica chiamano Ernesto Muggia: chiamano la modella deficiente, s'invita la povera Natalia Aspesi che a Otto e mezzo, da Ferrara, si è chiesta testualmente come mai i giovani si drogassero anziché fare una passeggiata o mangiare un bignè. Era la risposta vivente al problema.

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