Ora gli Usa vogliono fare pressione sul regime di Assad

L’Amministrazione Obama si prepara ad alzare la voce con il regime del giovane Bashar El Assad. La violenta e ininterrotta repressione delle forze di sicurezza siriane contro la rivolta popolare iniziata due mesi fa nel Paese ha portato gli Stati Uniti e l’Unione europea a criticare il regime di Damasco, a imporre sanzioni contro alcuni uomini dell’entourage presidenziale, a chiedere ad Assad di aprire la via alle riforme. Ma finora, nessuno ha ancora messo in discussione la poltrona del presidente, come è successo invece negli ultimi giorni di regno del faraone Hosni Mubarak in Egitto e in Libia con il colonnello Muammar Gheddafi. Il crescere della violenza contro i civili in protesta sembra aver fatto cambiare corso alla diplomazia. Alti funzionari dell’Amministrazione Obama hanno rivelato ieri all’Associated Press che è questione di ore: a breve Washington potrebbe dichiarare che il presidente Assad ha perso la legittimità di governare, che è ora che il rais e la sua famiglia lascino il potere.
Gli Stati Uniti, che nei mesi passati avevano scelto la via del dialogo con il regime di Assad, riaprendo a gennaio la sede diplomatica di Damasco, chiusa sei anni fa, hanno iniziato ad alzare i toni con il crescere della repressione in Siria: hanno imposto sanzioni a due importanti esponenti del regime. Gli indizi che emergono ora sulla stampa americana suggeriscono la possibilità di mosse più radicali. Da giorni i mass media nazionali parlano di un dibattito interno all’Amministrazione americana su come muoversi con Damasco.
L’America spera anche nella collaborazione con gli alleati. Obama ha espresso apprezzamento per l’Europa: Bruxelles ha varato martedì un pacchetto di misure economiche contro 13 uomini del regime siriano. L’Unione è il principale partner commerciale di Damasco e le sanzioni imposte dai 27 dovrebbero avere una maggiore capacità di colpire il regime di Assad rispetto a quelle americane. Eppure, poche ore dopo l’annuncio europeo, la repressione del regime non è diminuita e sembrano ogni giorno più reali le parole che Rami Makhlouf, cugino del presidente, ha detto al New York Times: «L’élite siriana al potere combatterà fino alla fine».
Ieri i carri armati dell’esercito sono entrati nella città occidentale di Homs e secondo testimoni oculari avrebbero sparato sugli abitanti, uccidendo almeno nove persone. A Daraa le vittime sarebbero 13, sempre secondo attivisti e testimoni, visto che la stampa internazionale resta bandita dal suolo siriano. Finora, secondo i gruppi per i diritti umani locali, i morti sarebbero oltre 750 e oltre 10mila persone sarebbero state arrestate. La Casa Bianca ha «condannato con forza» le repressioni di ieri contro la popolazione. «Un atteggiamento del genere può portare soltanto a più instabilità nel Paese», ha detto il portavoce Jay Carney.

E Damasco, criticata da ogni parte per le brutalità contro i civili e l’uso indiscriminato della forza militare contro i manifestanti, ha deciso di ritirare la sua stonata candidatura per un seggio al consiglio per i diritti umani dell’Onu. Sarà il Kuwait a presentarsi al voto fra poche settimane.

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