RomaSarà pure una «febbre da crescita», come la chiama Anna Finocchiaro, sta di fatto che la temperatura nel Pd è al di sopra del normale e del fisiologico. Quando in un partito si comincia a chiedere un «chiarimento», qualcosa che non funziona cè di sicuro. E se poi a chiederlo è il segretario, vuol dire che per i suoi critici interni tira una brutta aria.
Oggi si riunisce il coordinamento del Pd, organismo ristretto di non chiarissima ragione sociale, ma nel quale siedono comunque diversi big: da Bersani a Letta, da Fassino ai capigruppo. Non Massimo DAlema, convitato di pietra di ogni possibile «chiarimento» interno. La telenovela sulla Vigilanza Rai è stata il detonatore che ha fatto scoppiare in campo (quasi) aperto quella che ieri la Stampa ribattezzava la «guerra dei trentanni» tra i soliti dioscuri post-Pci. La storia, per come si è dipanata e conclusa, tra colpi di scena degni di una pochade e il leader dellopposizione costretto a chiedere aiuto a Palazzo Chigi per uscire dai guai, rischiava di essere un trappolone micidiale per la leadership di Walter Veltroni. E unala del partito (dalemiani in testa) già si preparava a chiedergli conto degli «errori» commessi e della sua gestione «fallimentare» della partita, nella quale aveva inchiodato il Pd allindigeribile candidatura di Leoluca Orlando e a quella che Nicola Latorre definisce «dannosa subalternità» a Tonino Di Pietro.
Alla fine, però, il segretario (mostrando una pelle molto più dura di quel che qualcuno prevedeva) è riuscito ad rivoltare larma verso chi gliela puntava addosso, e ha cominciato a prendersi diverse vendette. Spalleggiato stavolta da Repubblica, che domenica, con un editoriale di Eugenio Scalfari, ha scomunicato pesantemente la fronda dalemiana e la corrente che in lui si riconosce e che lavora alla «sistematica denigrazione» del segretario. Accuse pesantissime. La vendetta contro Latorre, braccio destro di DAlema, è stata la più cruenta: attorno al famoso (e tutto sommato alquanto innocuo, visto che lunico a fare una figura non brillantissima era Italo Bocchino) «pizzino» è stata montata una campagna mediatica feroce - a partire dalla semantica mafiologica - tenuta in piedi per una settimana.
Obiettivo delloperazione, alimentare il sospetto (fondato, giurano in diversi nel fronte veltroniano, ma vai a sapere) che dietro il pasticcio della Vigilanza ci fosse un «complotto» dalemiano per indebolire il segretario, e una «intelligenza con il nemico» che ha portato allelezione di Villari. E, sulla base di quel sospetto, iniziare a regolare i conti. «Unaccusa vergognosa funzionale solo a coprire la responsabilità di una condotta politica fallimentare», denuncia Latorre. Che intanto però si è dovuto dimettere dalla commissione, mentre il suo ruolo di vicecapogruppo è sub iudice. Nel mirino sono finiti anche i radicali, rei di aver apertamente spalleggiato Villari, e di aver definito «eversiva» la richiesta di dimissioni fatta da Veltroni. A sorpresa, dopo che a Emma Bonino erano state date tutte le assicurazioni del caso da Veltroni e Franceschini in persona, il pannelliano Marco Beltrandi, candidato Pd al ruolo di segretario della Vigilanza, è stato fatto fuori nel segreto dellurna dagli stessi colleghi di gruppo, che hanno preferito lex Dc Enzo Carra. «Una vera scorrettezza», dice Bonino.
Intanto Goffredo Bettini si occupava di sbaragliare i dalemiani nel Lazio, dove il candidato veltroniano Roberto Morassut si è aggiudicato la segreteria regionale tra polemiche virulente e accuse di «arroganza» lanciate da Matteo Orfini, fedelissimo dellex ministro degli Esteri.
Ora Veltroni si vendica dei suoi nemici
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