«Orchestrion è il frutto di un sogno da bambino»

Ricordate il piano meccanico, quello con i famosi rulli forati che si vedeva nei film western e veniva usato da alcuni artisti nella gloriosa stagione del ragtime e dello «stride piano»? Pat Metheny, mago della chitarra e geniale ricercatore, riparte da lì, unendo la sua chitarra elettrica a strani strumenti meccanici (alcuni costruiti appositamente) che formano l’intrigante ensemble del nuovo cd Orchestrion, che l’artista statunitense esegue stasera allo Smeraldo (ore 21, www.smeraldo.it) come prima data della sua tournèe italiana.
Caro Metheny, un progetto più da ingegnere che da musicista.
«No, è un progetto che parte da un’idea musicale molto precisa, quella di riuscire a dare ai vecchi strumenti meccanici, come i pianoforti a rullo e appunto gli Orchestrion quello che loro mancava. La parolina magica è dinamica. Il loro suono è sempre noiosamente uguale. La sfida è stata quella di dotare gli strumenti meccanici della possibilità di suonare dal pianissimo al fortissimo. Ho capito che potevo farlo la prima volta che ho sentito il pianoforte Disklavier della Yamaha, l’erede dei vecchi piani meccanici che, grazie all’utilizzo dei solenoidi, riproduce i brani suonandoli in tutta la loro gamma».
Con lei hanno lavorato anche ingegneri e inventori.
«Gli ingegneri che hanno lavorato con me, in particolare Eric Singer della League of Electronic Musical Urba Robots, sono anch’essi musicisti e credo che difficilmente un non musicista avrebbe potuto costruire per me strumenti così sofisticati. Gli inventori sono persone speciali con l’attitudine a risolvere problemi. Io avevo idee molto precise su quello che volevo ottenere per cui ho passato con loro molto tempo a spiegarle. Ma oltre agli strumenti meccanici, ci sono due organi pneumatici che trovo fantastici per timbrica e risposta».
Lei scopre il lato migliore e umano della tecnologia.
«Aspettiamo che sia il pubblico a dirlo, io posso solo stupirmi giorno dopo giorno nel sentire come e quanto Orchestrion si animi della mia anima musicale ogni volta che lo suono, perché tuttò ciò che succede sul palco è determinato dalla mia chitarra».
Quanto tempo ha lavorato al progetto?
«La realizzazione vera e propria, che comprende la costruzione degli strumenti e la scrittura delle musiche del cd, ha preso 11 mesi circa. Se parliamo invece dello studio e delle ricerche che ho fatto per arrivare al risultato finale, dobbiamo parlare di alcuni anni. All’origine di tutto sta un mio sogno di quando ero bambino e passavo ore a giocare con un vecchio piano a rulli che mio nonno paterno teneva in cantina».
Lei sta portando la ricerca e il jazz a livelli estremi; quale sarà il prossimo passo?
«Ancora non so. Le possibilità dell’Orchestrion sono molto più vaste di quelle che ho fin qui scoperto. Ogni giorno trovo nuove soluzioni e anche il concerto è una specie di work in progress».
Non si rischia di perdere le radici del blues o del primo jazz?
«La mia musica, che sia suonata con altri musicisti o strumenti meccanici, non si è mai discostata dalle radici e dalla cultura blues e jazz».
Dunque riparte dal piano meccanico e dal ragtime?
«Parte da lì ma le confesso che visitando diversi musei mi sono reso conto di quanto sia antica l’idea dell’automazione in campo artistico».
Come combina i suoni più rumorosi con quelli più silenziosi?
«L’Orchestrion mi permette di portare al limite il mio discorso musicale in cui il fattore dinamico è una componente fondamentale.

Sono io, tramite la chitarra, a suonare tutti gli strumenti che sono sul palco e lo faccio utilizzando la capacità acquisita negli anni di usare le dinamiche».
L’opera rende meglio su cd o dal vivo?
«Beh, dal vivo a ogni spettacolo aggiungo qualcosa di nuovo».

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