Orsini: un omaggio d’autore per i grandi del palcoscenico

Con questo allestimento l’interprete festeggia la lunga fedeltà alla sala di via Nazionale

Gli studi di legge se li è lasciati alle spalle senza rimpianto. Anche se, per uno strano caso del destino, fu proprio mentre faceva pratica presso un notaio che gli venne l’idea di dedicarsi alla recitazione: «Quando leggevo gli atti notarili, si mettevano tutti ad ascoltarmi affascinati; non facevano che ripetermi "dovresti fare l’attore"». E lui colse il suggerimento al volo. Si iscrisse all’Accademia Silvio D’Amico, debuttò con la Compagnia dei Giovani nel Diario di Anna Frank (era il ’57), recitò in produzioni di punta. Insomma, divenne Umberto Orsini: uno dei protagonisti più raffinati della nostra scena che, nella sua carriera, ha avuto la fortuna di lavorare con i grandi nomi del teatro italiano e che oggi, a 73 anni (ma ne dimostra almeno dieci di meno), festeggia i 38 spettacoli fatti all’Eliseo con l’ennesima ripresa de Il nipote di Wittgenstein di Thomas Bernhard, su adattamento e regia di Pratick Guinand (da stasera al Piccolo Eliseo). «Intendo fare un omaggio alla sala di via Nazionale (struttura che egli stesso ha diretto, insieme con Gabriele Lavia, dall’81 al ’97, ndr) e in particolare alla memoria di Patroni Griffi. Non per niente questo monologo debuttò 15 anni fa proprio al Piccolo Eliseo, che oggi porta il suo nome. Inoltre, si tratta di un allestimento che oggi assume un valore ancora più emblematico, perché molti di quelli che voglio ricordare non ci sono più». Al centro del testo (un romanzo autobiografico che miscela con sapienza realtà e fantasia immaginando una conversazione tra lo scrittore austriaco e Paul Wittgenstein, nipote del filosofo Ludwig, morto in manicomio) c’è infatti una storia di amicizia, follia e creatività al maschile assolutamente intima e disincantata. «Bernhard dice che le persone che davvero hanno un peso nella nostra vita si possono contare sulle dita di una mano e che, anzi, una mano è fin troppa: basta un dito». È d’accordo? «In parte sì: ho conosciuto tanta gente, ho fatto spettacoli e film con artisti straordinari, ho avuto una vita privata costellata di presenze significative, ma certamente gli incontri davvero fondamentali sono stati pochi». Ad esempio? «Gianni Santuccio, Patroni Griffi appunto, Visconti e altri amici non pubblici». Non ama perdersi nei ricordi Orsini, tanto più che il teatro per lui è ancora vitale. Si tratta solo di saper prendere il meglio: «Su cento spettacoli prodotti, almeno venti sono buoni; per un attore è fondamentale stare in quei venti. Per quanto mi riguarda, ho l’enorme vantaggio di poter scegliere». Imboccando, ogni tanto, anche la strada delle scommesse più audaci: basti pensare al successo di Copenaghen di Frayn, o ai più recenti Urlo di Pippo Delbono e Ballata del carcere di Reading di Wilde. «A fine giugno - aggiunge - debutterò al Festival di Asti diretto da Andrea De Rosa in un testo che si intitola Molly Sweeney. Intanto, lo attende quasi un mese di repliche al Piccolo Eliseo.

Un ritorno che rappresenta un approdo importante: «Anni fa, dopo lo spettacolo, venivano in camerino e mi dicevano: "Bello ma difficile!"; l’ultima volta mi hanno detto: "Bello e commuovente!" Probabilmente, con la maturità, la mia interpretazione tende a scavare più a fondo; risulta più vissuta, più partecipata».

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