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Ospedali senza infermieri Ma il sindacato fa bloccare le assunzioni

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Ospedali senza infermieri Ma il sindacato fa bloccare le assunzioni

Stefano Zurlo

da Milano

Al concorso bandito solo tre mesi fa per venticinque posti da infermiere, si era presentato un solo candidato. E così pure le volte precedenti. Del resto l’Azienda ospedaliera di Melegnano, al centro di un popoloso bacino nel Milanese, rappresenta, purtroppo la media italiana. Trovare personale specializzato da inserire negli ospedali per assistere i malati è sempre più difficile: all’appello mancano circa 40-50mila unità. Un dato drammatico. Così nei mesi scorsi, con molte cautele, l’Azienda aveva deciso di giocare una partita diversa, al passo con i tempi: infilare in coda ad un appalto per la fornitura di nuove attrezzature, anche la richiesta di «risorse umane», per il servizio dialisi. Nella realtà, un pugno di infermieri da inserire negli ospedali di Cernusco sul Naviglio, Gorgonzola e Cassano d’Adda. Ma la Cgil ha fatto ricorso e il giudice del lavoro di Lodi ha stoppato la gara.
Tutto fermo. L’appalto, del valore di 7,7 milioni di euro, è bloccato. Le attrezzature, assolutamente necessarie, non arriveranno e nemmeno entreranno in servizio gli infermieri: a questo punto il servizio di dialisi è a rischio. E decine di pazienti hanno firmato un appello, indirizzato al Governatore Roberto Formigoni, in cui sottolineano la drammaticità della situazione: «Pazienti e operatori perdono la sicurezza di poter usufruire di personale infermieristico in grado di operare in modo continuativo fornendo un’assistenza adeguata e di risolvere le emergenze che si verificano»; inoltre «andranno in fumo le innovazioni tecnologiche e strutturali previste, così come l’adeguamento di arredi e suppellettili obsoleti e malfunzionanti».
Insomma, per i malati, alle prese con la difficile routine della dialisi, è emergenza. E tutto per il braccio di ferro ingaggiato e vinto, almeno per ora, dalla Cgil contro l’azienda ospedaliera. La Cgil non gradisce nuove forme di selezione del personale e contratti non tradizionali che metterebbero in crisi il suo potere. Il sindacato è andato alla guerra, impugnando l’accordo collettivo raggiunto il 14 febbraio 2005; l’intesa, firmata anche dalla Cisl e dalla Uil che però non l’hanno impugnata, prevedeva che l’Azienda ospedaliera potenziasse i posti letto disponibili per la dialisi e privilegiasse in tal senso le risorse interne; veniva però annunciata anche una gara per la fornitura di materiale, strumentazione, «risorse umane, laddove necessarie», per migliorare la qualità del lavoro.
Per la Cgil, evidentemente, le risorse umane esterne non sono necessarie, per l’Azienda ospedaliera sì. Così su quelle due parole, «laddove necessarie», è scoppiata una disputa i cui ingredienti sono insieme lessicali e ideologici. Privilegiare il personale interno, vuol dire di fatto sbarrare la strada ad ogni alternativa esterna? Il direttore dell’Azienda ospedaliera Maurizio Cecchetin, con la sua mossa, avrebbe di fatto stracciato quel contratto collettivo. E il giudice ha condiviso il ragionamento del sindacato: «Predisponendo la gara d’appalto, prima ancora dell’esito del concorso per l’assunzione di infermieri, l’azienda ha peraltro manifestato l’intenzione di procedere al reclutamento di personale tramite appalto, non attendendo neppure l’esito del concorso stesso».
Per il magistrato, dunque, bisogna seguire la via ortodossa del concorso anche se i risultati sono fallimentari e la struttura non ce la fa a stare dietro ai malati. L’appalto non va bene, anche se la gara velocizzerebbe i tempi e introdurrebbe elementi di flessibilità in un luogo ingessato da logiche antiquate. Cecchetin, allarmato, mette le mani avanti: c’è il rischio di «una riduzione del servizio di dialisi con gravissimi danni per i dializzandi». E con una conseguenza paradossale: «È probabile che che i medesimi si rivolgano per le cure quotidiane al San Raffaele e all’Humanitas, assecondando proprio quella logica di privatizzazione sanitaria che la Cgil dichiara, a parole, di voler contrastare».

La parola, ora, torna al giudice.

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