Dalla P38 alla penna, quel killer così chic coccolato dalla sinistra

Responsabile di una scia di sangue, s’è reinventato giallista. La gauche: "È un eroe trattato da criminale"

Dalla P38 alla penna, quel killer così chic coccolato dalla sinistra

Milano - Alla storia della lotta armata aggiunsero solo un elemento: la ferocia. Venti mesi durò la parabola di Cesare Battisti e dei Pac, i Proletari armati per il comunismo. Meno di due anni, fra il ’77 e il ’79: una cometa di sangue. Quattro omicidi efferati. E lo sfregio più doloroso, spaventoso anche nella sanguinaria Italia di quegli anni: l’omicidio il 16 febbraio 1979 dell’orefice Pierluigi Torregiani, il figlio Alberto costretto su una sedia a rotelle, quella rivendicazione rivoltante in cui si fa riferimento al «porco Torregiani». I Pac erano una banda di periferia, nata fra i casermoni milanesi della Barona e Verona, e in origine Battisti era solo un malavitoso di piccolo calibro. In carcere, l’incontro fatale con Arrigo Cavallina, l’ideologo della formazione che coltivava «la rabbia contro il carcere».

Ha spiegato Cavallina all’Antipatico: «C’era un gruppo più ristretto, con Battisti, il sottoscritto, Sebastiano Masala, Claudio Lavazza, oggi sottoposto al carcere duro in Spagna e bandiera degli anarco-insurrezionalisti di mezza Europa, Luigi Bergamin, Piero Mutti. E poi c’era un cerchio più largo». Lì orbitava Giuseppe Memeo la cui foto scattata in via De Amicis a Milano il 14 maggio 77 - gambe divaricate, passamontagna, pistola in pugno - è la cartolina simbolo degli anni di piombo. Il 6 giugno 1978 il battesimo di sangue: a Udine viene falciato il capo della guardie carcerarie Antonio Santoro. I Pac si spaccano: Cavallina frena, Battisti non si ferma più. Muore Pierluigi Torregiani e a Mestre muore Lino Sabbadin: la colpa dell’orefice e del macellaio è aver aperto il fuoco contro due rapinatori che li avevano aggrediti.

Sono giorni terribili per l’Italia: all’inizio del 1979 le Brigate rosse uccidono a Genova l’operaio Guido Rossa, Prima linea elimina a Milano il giudice Emilio Alessandrini. Ma le esecuzioni firmate dai Pac hanno una gratuità malvagia che lascia atterriti. Per fortuna la cometa si dissolve rapidamente, decimata dagli arresti. Gli ultimi sbandati dei Pac confluiscono in Prima linea, Battisti nell’81 evade dal carcere di Fossombrone, fugge a Puerto Escondido in Messico, ricompare intorno al 1990 a Parigi.

Inizia la seconda vita, quella dei romanzi noir e dell’ingresso nei circoli della gauche francese: d’incanto il neoscrittore si scrolla di dosso il passato come un vestito logoro. Elena Torregiani, la vedova dell’orefice, finisce dimenticata in una casa popolare di Milano. Nel 2006 dirà al Giornale: «Nessuno ha mai bussato a questa porta, lo Stato non si è mai fatto vedere». Stanno tutti dall’altra parte: gli appelli e le manifestazioni pro Battisti si sprecano. Quando nel 2004, i francesi si decidono ad arrestarlo, sono gli intellettuali a mobilitarsi: firmano gli scrittori Valerio Evangelisti e Tiziano Scarpa, firma il regista Davide Ferrario, firma il disegnatore Vauro. «Cesare Battisti - si legge su Internet - si è dedicato a un’intensa attività letteraria, centrata sul ripensamento dell’esperienza di antagonismo radicale che vide coinvolti centinaia di migliaia di giovani italiani e che spesso sfociò nella lotta armata. La sua opera è nel suo assieme una straordinaria e ineguagliata riflessione sugli anni Settanta, quale nessuna forza politica che ha governato l’Italia da quel tempo ad oggi ha osato tentare».

E ancora: «Trattarlo oggi da criminale è un oltraggio non solo alla verità, ma pure a tutti coloro che hanno affidato alla parola scritta la spiegazione della loro vita e il loro riscatto». In Francia Battisti è un’icona; scrittori, politici di prima caratura, intellettuali lo coccolano e lo difendono fino a sfiorare il ridicolo e dipingono l’Italia degli anni Ottanta, quella in cui il latitante Battisti fu processato e condannato all’ergastolo, come uno stato di polizia. Un regime autoritario, poco meno di una dittatura le cui sentenze vanno cestinate.
Battisti viene liberato e scappa ancora una volta sulla passatoia stesa dagli innumerevoli amici. Il rifondarolo Giovanni Russo Spena s’inventa un «diritto soggettivo alla fuga». Il sindaco di Parigi Bertrand Delanoe lo adotta e il Consiglio comunale della capitale offre al latitante il mantello della «protezione della città». Il leader socialista François Hollande, compagno di Ségolène Royal, è andato a trovarlo nel carcere della Santè. «Non ho intenzione di dare lezione all’Italia - pontifica con un’arroganza tutta transalpina il filosofo Bernard-Henri Lévy - ma i giudici francesi sanno che il sistema penale italiano è ancora marcato dalle leggi speciali, speciali e scellerate». Poi il pensatore si commuove ascoltando le note di Bella ciao: ma sì, l’illusione ottica è completa. Per i francesi, Battisti è un partigiano che ha combattuto la sua Resistenza. Pochi, pochissimi ricordano quello squallidissimo curriculum.

Oreste Scalzone,

recentemente ritornato in Italia insieme alla sua fisarmonica, libra oggi le sue parole in quella bolla di irrealtà: «L’arresto di Battisti mi angoscia, mentre quando sento la parola ergastolo penso a qualcosa di irreparabile».

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