La «Pablo» si arrende: «Schiacciata dai grandi»

Michele Anselmi

da Roma

Ce n'è per tutti. Per i produttori amici, come Domenico Procacci, Nicola Giuliano e Francesca Cima, che in questi cinque anni hanno preferito coprodurre e distribuire i loro film con la «berlusconiana» Medusa; per i registi, da Bertolucci a Sorrentino, da Garrone a Capuano, che per quieto vivere e scarso nerbo «si sono piegati alle logiche del mercato», accettando quindi (aridànghete!) di lavorare per Medusa; per i funzionari di Raicinema incapaci di «atti di coraggio pur non rischiando niente», e dunque anch'essi schiavi di scelte pigre e teledipendenti; per gli esercenti di qualità che si sono arresi ai ricatti dei «grandi distributori» e rifiutano di programmare film «non convenzionali»; per la legge Urbani, in sé forse «accettabile» ma «arrivata troppo tardi»; perfino per la Rossanda, «colpevole» di aver pubblicato il suo La ragazza del secolo scorso con Einaudi e non con la Manifestolibri.
Gianluca Arcopinto, 47 anni, produttore e distributore «alternativo», nonché regista di un documentario su Nichi Vendola, è molto arrabbiato. Dopo sette anni di attività e trentaquattro titoli, deve chiudere la sua piccola casa di distribuzione, la Pablo. Una morte annunciata, fatta risalire «al tirannico duopolio Rai-Mediaset» che annichilisce i fermenti creativi e omologa i prodotti; ma anche all'insensibilità dello stesso mondo del cinema, prodigo di complimenti e però assente, distratto, vigliacco.
Così, parafrasando il De Gregori di «Hanno ammazzato Pablo», martedì Arcopinto ha trasformato il suo j'accuse in una festa «per non piangersi addosso». In verità nessuno aveva troppa voglia di festeggiare. In un clima tra lo sfogatoio e lo psicodramma, la serata militante ha finito col prendere di mira l'intero Sistema, sia pure con qualche accento autocritico, tipo: «Volevamo essere alternativi a tutti, invece siamo diventati uguali agli altri senza averne il potere contrattuale».
Magari non è solo così, magari la Pablo non è David che soccombe a Golia, magari esiste anche un problema di gusti, di storie, di stili, se è vero che, tutti insieme, i film distribuiti hanno incassato 2 milioni di euro. Troppo poco per sopravvivere. Nondimeno bisogna riconoscere ad Arcopinto di aver svolto un ruolo apprezzabile nella scoperta di nuovi talenti. Qualche esempio? Il Garrone di Ospiti, il Tavarelli di Un amore, il Marra di Tornando a casa, lo Zanasi di Nella mischia, il Gaglianone di I nostri anni, il Winspeare di Pizzicata, il Mereu di Ballo a tre passi, il Munzi di Saimir. Nomi poco noti al grande pubblico, e però hanno contribuito a svecchiare il cinema italiano, gareggiando ai festival, conquistando premi. Ma nei giorni della «rabbiosa serenità» è difficile trovare gli accenti giusti. Sicché, nella sua invettiva alla Zeman, Arcopinto dipinge solo uno scenario apocalittico. Protesta: «Il pubblico deve sapere che non sono più di quattordici, a voler essere larghi, le persone che decidono se un film si fa o non si fa: due lavorano in Rai, una a Medusa, una decina al ministero».

Salva Aurelio De Laurentiis e Nanni Moretti, i due che, su campi diversi, possono decidere tutto da soli. Povero Arcopinto, si può capirlo. Perfino Daniele Segre, duro e puro quanto lui, non lo saluta più da quando la Pablo distribuì il suo Vecchie. Grama la vita dell'indipendente.

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