nostro inviato a Cagliari
Ventiquattr’ore e una lunga notte dopo il durissimo braccio di ferro, Palazzo Chigi e il Quirinale restano decisamente più lontani di quelle poche centinaia di metri che li separano nel centro di Roma. Le posizioni, infatti, non hanno fatto che sedimentarsi. Con Silvio Berlusconi sempre più convinto delle sue ragioni e sempre più deciso a risolvere quello che in privato ha ripetutamente definito un «vulnus» del sistema. Il premier, infatti, non cede di un passo sulla necessità di rivedere la prassi che regola la decretazione d'urgenza, «l'unica strada per affrontare in tempo utile i problemi di un Paese con un'architettura istituzionale vecchia». «Levatemi anche questo», s'è sfogato in privato ieri e «non mi resta nulla se non fare l'ordine del giorno del Consiglio dei ministri...». Anzi, «Gianni Letta lo fa molto meglio di me...».
E non è affatto un caso che prima di lasciare Cagliari, nonostante la pioggia, il premier si soffermi con i cronisti a ricordare come venerdì «l'ordine del giorno è stato cambiato dopo che Letta ci ha fatto sapere che era in arrivo la lettera del Quirinale». Come a dire che di questo passo non gli resta neanche quello.
Sul punto insiste a lungo. Perché «con i poteri che ha il presidente del Consiglio» sommati a «una prassi che fa intervenire il presidente della Repubblica addirittura prima che si prenda una decisione» diventa «veramente una cosa da ridere». «Una situazione ingovernabile», chiosa con i suoi. Perché, aggiunge sempre in privato, «se oltre a mediare con gli alleati devo anche trattare con il Quirinale ogni volta che c'è la necessità di un decreto il Paese è paralizzato». La prassi, quindi, «va cambiata». «Serve un chiarimento costituzionale», spiega Berlusconi. Convinto che «la responsabilità di giudicare sui requisiti di necessità e di urgenza sia del governo» e «il giudizio di questi ultimi sia del Parlamento». Non del Colle, insomma.
Tanto ne è convinto Berlusconi da volere una riforma della Carta costituzionale, «una legge fatta molti anni fa sotto l'influsso di una fine di una dittatura e con la presenza al tavolo di forze ideologizzate che hanno guardato alla Costituzione russa come un modello».
E a chi gli chiede se abbia pensato a risolvere la querelle chiamando in causa la Corte Costituzionale risponde con un gesto eloquente e si serra le labbra con le dita. Come dire che l'idea gli è balenata in testa o, forse, che difficilmente la Consulta - i cui giudici sono in parte nominati dal Colle - gli potrebbe mai dare ragione.
Ma la partita sulla decretazione d'urgenza e, in definitiva, sull'autonomia decisionale del governo si incrocia con quella in corso con il Quirinale. I rapporti, premette Berlusconi, «sono cordiali». Ma, aggiunge, «la ricostruzione della giornata di ieri uscita sui giornali non è esatta». Parole che si riferiscono in particolare a come il Colle ha presentato i fatti. Primo: «Noi avevamo richiesto un parere come sempre succede per cortesia istituzionale, ma certo non avevamo chiesto una lettera». Secondo: «La missiva non era affatto segreta». Comunque, aggiunge, dopo che il governo è andato avanti sulla strada del decreto, visti i tempi strettissimi «immaginavo che si potesse superare da parte del Colle una posizione legata a fatti giuridici anche non condivisibili». Invece Giorgio Napolitano è rimasto fermo sulle sue posizioni. E su quelle espresse nella missiva che, dice in un primo momento il premier, «conteneva anche una implicazione grave di eutanasia». Parole su cui tornerà più tardi spiegando che non si riferiva alla lettera del Quirinale.
Berlusconi torna anche su Eluana Englaro, sulle cui sorti «ci sono due culture che si confrontano». «Da un lato - dice - la cultura della libertà e della vita e dall'altro quella dello statalismo e, in questo caso, della morte».
Non se la sente di fare un appello al padre affinché si fermi, ma prova a mettersi nei suoi panni. «Se uno dei miei figli fosse lì, vivo, e mi dicono anche con un bell'aspetto e con la capacità di potersi risvegliare visto che il cervello trasmette ancora segnali elettrici, io - dice il premier - non me la sentirei proprio di staccare la spina».
L'appello, però, Berlusconi lo fa ai medici, affinché non seguano anche loro quella che è «la volontà di togliersi di mezzo una scomodità». Perché i medici, ragiona, «sono votati a salvare la vita umana e non capisco come possano impegnarsi in un'azione che porta sicuramente alla morte».
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