Cronaca locale

Pagani, l’ultimo artigiano della musica domani all’Anfiteatro

Dagli inizi del 1983, quando si chiuse con Fabrizio De André nello sgabuzzino di casa per scrivere «Crêuza de mâ», al rock e al beat: un grande creativo senza tempo

Antonio Lodetti

Nell’estate 1983 Mauro Pagani lavora con Fabrizio De André al capolavoro Crêuza de mâ. I due registrano in casa di Pagani, nello sgabuzzino dello scaldabagno, dove c’è una acustica particolare ricca di riverbero.
Quando il disco è pronto l’allora presidente della Ricordi, prima di pubblicarlo, esprime la sua perplessità. «Speriamo di vendere almeno qualche copia a Genova», dice. È il periodo della disco music, del ballo e del disimpegno, ma le sonorità folk, l’incrocio di sapori etnici ante litteram di Crêuza de mâ trova la sua strada in controtendenza rispetto a un mercato dominato dalle canzoncine usa e getta (anni dopo i due in coppia produrranno l’altrettanto splendido Le nuvole).
L’album diventa un classico, un must della musica italiana di qualità, ancora oggi punto di riferimento per chi, in Italia, si lancia sui territori della contaminazione. Così Mauro Pagani, più di un anno fa, ha ripreso le emozioni e i colori di quelle canzoni, le ha riarrangiate con l’aiuto di musicisti africani, ha reinciso la sua personale versione del disco e lo ripropone dal vivo domani sera, all’Anfiteatro, nell’ambito della Festa dell’Unità.
Pagani, l’ultimo artigiano della musica; un creativo, un grande artista-polistrumentista che ha sempre seguito il cuore senza badare alle tendenze e alle logiche commerciali. Nel ’78 incide un disco sperimentale (con la collaborazione di artisti come Area e Canzoniere del Lazio), prodotto da Caterina Caselli, che vende sì e no milleduecento copie. Sconosciuto al grande pubblico, è quotatissimo tra i musicisti che contano per la sua abilità nello suonare strumenti strani e desueti (nella Buona novella di De André suona l’ottavino, ma lui è abilissimo anche al bouzouki, alla fisarmonica, al mandolino, alle chitarre e chi più ne ha più ne metta).
Al rock arriva attraverso il beat d’avanguardia di Quelli, futura costola della Premiata Forneria Marconi. Il suo violino è elemento fondamentale del lussureggiante cocktail sonoro della Pfm, ultimo banco di prova prima della partenza del Pagani solista. Del Pagani pioniere dei suoni etnici, della cosiddetta world music che si insinua prepotente nei suoi primi lavori per poi diventare componente primaria della sua opera. «Rivendico la mia mediterraneità; quei suoni sono nel mio dna, anche se molti li ho scoperti viaggiando in Algeria e Tunisia, altri sono entrati in me attraverso percorsi misteriosi. In Italia abbiamo scoperto la world music con vent’anni d’anticipo. Poi la discoc musi ha spazzato via tutto ma ci siamo ripresi bene».
Poi c’è il Pagani produttore, quello che dal suo studio sulla riva del Naviglio è alchimista di suoni per artisti come Morgan, Ligabue, Roberto Vecchioni e decine di altri artisti, quello che sente il dovere morale di aiutare l’artista «ad ampliare i propri pregi e a correggere i suoi difetti».
Ha mille volti insomma questo artista che continua a combattere per la sopravvivenza di una musica al tempo stesso nobile e di origine popolare.

Lo fa attraverso i festival (è direttore artistico del “Festival Città aromatica” di Siena) o attraverso il suo ultimo cd Domani, ispirato nei suoni e romanticamente e provocatoriamente battagliero nei testi, come testimonia Frontefreddo, scritta dopo un viaggio a Cuba, che ha riaperto il dibattito sulla rivoluzione.

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