Pajetta, due secoli di pittura tramandata di padre in figlio

Il gusto della pittura come mestiere, bottega, maniera di stare al mondo e campare, riproducendo scene di vita, paesaggi e volti. Il pittore è visto più come artigiano che come artista e dipingere è lavoro, per la famiglia Pajetta, generazioni di pittori a partire da Paolo, decoratore di chiese e ville.
«Questa famiglia - spiega Giorgio Pajetta, figlio di Guido - è un’eccezione. Tutto è iniziato con il mio bisnonno Paolo, per proseguire con i figli Pietro e Mariano, e continuare con Mario Paolo e mio padre, arrivando quasi alla fine del Novecento, mentre le altre dinastie di pittori, si pensi ai Tiepolo, ai Ciardi, ai Carracci, si sono fermate tutte molto prima, e comunque non hanno superato l’Ottocento».
La mostra «I Pajetta - L’eredità della pittura 1809-1987», a Vittorio Veneto (Villa Croze, fino a domenica prossima), il luogo d’origine della dinastia, celebra questa eccezione, questo passaggio di consegna, quasi centottanta anni di mestiere tramandato e interpretato, vissuto da «una famiglia che - aggiunge Giorgio - spesso ha fuso arte, politica, impegno sociale sentendo tutta l’inquietudine della modernità. La loro forza e il loro limite è nella modestia, nell’incapacità di vendersi, caratteristica comune a tutti i membri della famiglia. Con il rivoluzionario avvento della fotografia, poi, Pietro e Mariano non seppero adeguarsi ed entrarono in competizione con questa forma d’arte nuova».
Mentre il Verismo trionfava nella letteratura, Pietro dipingeva i Giochi nella stalla (1874), dove due bambini si improvvisano condottieri di eserciti, uno a cavallo di un bue, l’altro sul letto con in mano una scopa tenuta come uno stendardo. Visioni nitide come istantanee, scene di cantastorie e contadini al mercato sorpresi mentre raccontano, vendono e comprano le loro storie e la loro mercanzia. Gli occhi umidi del cane che annusa la mano del padrone, la gioia del chierichetto che in un angolo della chiesa legge il Vangelo, fiero dei suoi progressi nella lettura che compie di nascosto, una gioia simile a quella della robusta perpetua mentre legge il breviario rubato per un attimo, seduta sulla scrivania del prete che sonnecchia.
Intimità e quotidiano, ritratti e autoritratti. Tutti hanno dipinto il proprio volto, anche Guido.

Generazioni diverse, passaggi del tempo e «l’uso del colore secondo la pittura veneta - sottolinea Giorgio, l’architetto figlio d’arte che ha spezzato la tradizione -, in tutti i Pajetta il colore anticipa il disegno e diventa forma». In Paolo il decoratore, in Pietro il pittore del popolo, in Mariano pittore di sfondi paesaggistici negli studi dei primi fotografi, in Mario Paolo, abile ritrattista, in Guido che ama il cromatismo acceso.

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