Dichiarato lo stato d’emergenza, sospesa la Costituzione, destituito il capo della Corte suprema - l’odiato giudice Iftikhar Mohammed Chaudry -, assediate dai militari radio e televisione. Questo è il Pakistan delle ultime ventiquattr’ore: un Paese completamente piegato alle decisioni del suo presidente e capo delle forze armate, Pervez Musharraf. Il leader di Islamabad ha calcolato i tempi nei minimi dettagli. Non ha agito dopo essere scampato, martedì scorso, all’ennesimo attentato contro di lui. Miracolosamente salvo, ha aspettato il momento giusto per sferrare il colpo decisivo, quello che difficilmente avrà una via di ritorno.
Tra due giorni, martedì, la Corte suprema avrebbe dovuto esprimere il primo dei due verdetti - il secondo era atteso per il 12 novembre - sulla legittimità della rielezione di Musharraf a capo dello Stato, decretata nel voto del 6 ottobre. Il leader pachistano correva il rischio di sentirsi dire che la sua carica non era legittima. La situazione si stava mettendo veramente male per lui, perché a guidare la Corte suprema era, fino a ieri, il giudice Chaudry. Da marzo Musharraf sta tentando in tutti i modi di rimuoverlo per le sue denunce sui provvedimenti antidemocratici del governo. Difensore dei diritti civili, il giudice Chaudry era stato esonerato dall’incarico il 9 marzo, salvo poi essere reintegrato il 20 luglio. Per il leader pachistano il verdetto della Corte suprema era una spada di Damocle: di qui la decisione di agire d’anticipo. In quanto capo delle forze armate, ha dichiarato lo stato d’emergenza e ha sospeso la Costituzione. Tra le motivazioni, oltre all’«insurrezione islamica», anche le «interferenze» della magistratura. Otto degli undici giudici della Corte suprema - tra cui lo stesso Chaudry - hanno definito la decisione «illegale» e ordinato al governo, guidato dal premier Shaukat Aziz, di sospendere la disposizione. L’esecutivo, com’era da aspettarsi, si è rifiutato.
Nel frattempo Musharraf è passato alla seconda fase del suo piano: azzerare il potere giudiziario. Sempre ieri è arrivato un altro annuncio, quello che tutti prima o poi si aspettavano. Il giudice è stato destituito, e al suo posto ha giurato Hamed Dogar, fedelissimo del presidente. L’ex premier Nawaz Sharif, dall’Arabia Saudita dove è in esilio, ha chiesto le dimissioni di Musharraf per consentire elezioni «libere e giuste», e ha lanciato un messaggio di sostegno alla magistratura, perché «mai dei giudici sono stati trattati in questa maniera».
Ma la mossa di ieri era stata calcolata nei minimi dettagli anche sul versante dell’opposizione politica. Musharraf ha approfittato che il suo principale avversario fosse all’estero. Giovedì Benazir Bhutto, l’ex premier rientrata il 18 ottobre dopo un esilio di otto anni e leader del Partito del popolo pachistano, era volata a Dubai. Ufficialmente per visitare alcuni familiari, ma è più probabile che il suo staff le abbia consigliato di allontanarsi dal Paese proprio per via del verdetto di martedì. La carismatica leader sarebbe dovuta rientrare in Pakistan il 9 novembre per partecipare a una manifestazione dell’opposizione a Rawalpindi. In serata invece è rientrata precipitosamente a Karachi.
In questo scenario la Comunità internazionale resta a guardare. La vicina India non nasconde la sua preoccupazione. New Delhi non ha potuto che augurarsi il ritorno alla «democrazia» e alla «normalità». La posizione più dura l’hanno presa gli Stati Uniti. E questo è un segnale di come qualcosa si sia, forse, incrinato. Islamabad e Washington sono legate da un patto di lotta al terrorismo islamico che risale all’indomani dell’11 settembre. Ma il segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, non ha badato alla diplomazia e ha detto che gli Stati Uniti non riconoscono le misure «extracostituzionali» adottate, definendo «riprovevole» la decisione dello stato d’emergenza.
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