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Palanche genovesi per un’avventura di carta

Palanche genovesi per un’avventura di carta

di Marcello Staglieno

Genova, sabato 21 settembre 1974, ore 20,45: in una sala riservata d’un grande albergo, al seguito di Indro Montanelli e Gianni Granzotto partecipai alla seconda riunione -ancòra informale, era un pranzo - con alcuni degli industriali genovesi grazie ai quali avrebbe preso il via, il martedì 28 gennaio 1975, l’edizione cittadina del «Giornale nuovo» (allora si chiamava così). Ci attendeva Luigi Vassallo – destinato a esserne il primo efficientissimo e appassionato caporedattore – il quale, per incarico di Granzotto, aveva organizzato la riunione assieme a Peppino Manzitti, allora direttore generale dell’Associazione industriali di Genova.
Dopo un semplice «Benvenuti!» da parte di Manzitti e un inchino del mio direttore, ci avviammo pressoché subito a un tavolo ellittico per dieci. Sul lato affacciato verso ampi finestroni, noi giornalisti prendemmo posto accanto a Montanelli, cui era stato riservato quello d’onore, al centro. Benché genovese d’antica famiglia mi sentivo, lo confesso, assai intimidito, da Milano Indro m’aveva preso con sé come mascotte.
Tra i più giovani fondatori del «Giornale» (25 giugno 1974), quella sera, in assoluto, ero le petit poulain della compagnia. Ma da metà luglio sapevo che cosa bolliva in pentola anche se subito dopo non avevo partecipato al primo d’altri frequenti contatti di Montanelli, Granzotto e Biazzi-Vergani, a Genova, con Angelo Costa e Felice Schiavetti. Davanti e attorno a noi, quella sera del 21 settembre, avevamo la fine fleur dell’imprenditoria cittadina, con personalità di grandissimo spicco anche in àmbito nazionale. Ricordo che di fronte a Montanelli – ne trovo conferma in un mio vecchio taccuino - c’era il mitico Giamba Parodi, allora presidente dell’Associazione, che dava la destra al decano Angelo Costa (già presidente di Confindustria nel decennio della ricostruzione, dal 1945 al ’55, quindi dal 1966 al ’70), seduto accanto a Paolo Emilio Taviani, a Peppino Manzitti, a Gian Vittorio Cauvin e al liberale Alfredo Biondi. A parte Montanelli, in spezzato grigio chiaro, eravamo tutti rigorosamente in blu. Su candida tovaglia in Fiandra, con eleganti sottopiatti e posate di alpaca e rilucenti bicchieri di cristallo, il pranzo - all’insegna del sobrio understament della nostra città - non conobbe eccessi: troffie al pesto, cima ripiena con insalata (Indro, come richiesto a Manzitti, si limitò a un bicchiere di rosso, a mezzo filetto e a poco più d’un pugno di fagioli al fiasco), torta di frutta tra vini eccellenti, Rossese di Dolceacqua e Sciacchetrà delle Cinque Terre, caffè. Al di là di qualche battuta (Giamba Parodi paragonò il proprio prominente naso a quello di Montanelli, adattando al maschile l’antico proverbio genovese «A na bella nave un bellu timun, a na bella figgia un bellu nasun» , «A una bella nave un bel timone, a un bell’uomo un bel nasone»), nel rapido succedersi delle portate la conversazione fu assai seria, con riferimenti continui alla difficile situazione economico-politica, nazionale e cittadina. Ma quello era assai più di un pranzo d’affari: avvertivi anche coraggio, professionalità, slancio imprenditoriale, fiducia, speranze, calore d’affetti. Lo dimostrò lo stesso Parodi, mentre Manzitti e Cauvin si appartavano con Granzotto, che del «Giornale» era l’amministratore delegato, verosimilmente per delineare i primi termini finanziari di quell’avventura. Al momento del caffè fu lui, a nome degli altri, a prendere la parola. Levandosi in piedi in tutta la sua alta magrezza, ravviandosi appena con la destra i capelli bianchissimi, si rivolse a Montanelli. Con semplici parole, da cui trapelava un’evidente ammirazione, Parodi lo ringraziò della sua determinazione nel voler aprire una redazione a Genova, con la sottintesa ostilità del sindaco comunista Cerofolini: anche attraverso pubblicità, l’associazione industriali avrebbe contribuito alle spese, ritenendo che quell’edizione del «Giornale» avrebbe realmente dato voce sia all’imprenditoria ligure sia a quella «maggioranza silenziosa» nella società civile che gli eccessi della contestazione, ma soprattutto l’incipiente terrorismo, sempre più stavano aggredendo.
Nel suo magro quanto efficace eloquio ricordò, il vecchio Giamba, gli attentati dinamitardi del Gruppo XXII Ottobre, antesignano delle Brigate Rosse, a partire dal 1970, sino all’omicidio (26 marzo 1971) del commesso Alessandro Floris, con il conseguente arresto del responsabile Mario Rossi, poi condannato all’ergastolo. Ricordò anche il giudice Mario Sossi, rapito il 18 aprile di quel 1974 dai terroristi che, dopo averlo processato e condannato a morte, l’avevano rilasciato il 23 maggio grazie all'offerta del Tribunale di Genova di rivedere la posizione di Rossi e di altri sette detenuti. E precisò infine – come sempre più sarebbe tragicamente emerso negli anni successivi con il vile assassinio del giudice Francesco Coco e dei tre uomini della sua scorta (Antonio Dejana, Giovanni Saponara e Antonio Esposito l’8 giugno 1976) e con quello del sindacalista Guido Rossa (24 gennaio 1979) – che per un quotidiano come «il Giornale» trapiantarsi in Genova equivaleva, già allora, a esporsi in prima linea. Proprio all’insegna di gravi rischi personali, per la contiguità logistica al terrorismo di larghi strati operai e sindacali genovesi: una contiguità che solo con la morte di Rossa (e con l’appassionato intervento di Sandro Pertini) prenderà poi, lentamente, a diminuire. Trattenendo l’emozione, per non mostrarsi commosso Montanelli ringraziò con una battuta, ch’era al fondo un complimento: «L’antica tradizione filantropica della Repubblica aristocratica si perpetua davvero in voi, disposti a elargire sonanti palanche per quest’avventura di carta..». Prese l’impegno per altre riunioni, ma ormai sapeva che l’edizione genovese del «Giornale» era cosa fatta. Puntò quindi l’indice destro verso Luigi Vassallo: «Ve la dovrete vedere, tu e i tuoi, miei ragazzi, non tanto con il “Secolo XIX” diretto da Cesare Lanza e con “Il Lavoro” diretto da chissacchì, ma soprattutto con i lettori. Buona fortuna». Nella prima piccola sede in via Brigata Liguria, Vassallo raccolse attorno a sé Umberto Merani, Franco Manzitti, Pippo Zerbini e Lino Martini (poi seguìti da Emanuele Dotto, Piero Pizzillo, Vittorio Sirianni e, da Milano, dai colleghi genovesi Cesare G.

Romana e Ermes Zampollo). Il primo numero uscì il 28 gennaio 1975. E in trentacinqu’anni ha collezionato tra molti rischi, l’edizione genovese, anche scoop, consensi di pubblico e successi. Ma questa, come diceva Kipling, è un’altra storia.

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