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Il Pantani belga salvato in extremis dal suicidio

Il corridore è ricoverato a Magenta. Alto, bello, biondo, amato dalle donne, sembrava destinato a grandi cose. Poi il tracollo

Il Pantani belga salvato in extremis dal suicidio

Dire Vandenbroucke, per molta gente italiana, non significa molto. Meglio raccontarlo nel modo che a noi dice praticamente tutto: è il Pantani belga. Un grande talento del ciclismo, un campione rovinato dal doping, un uomo perso nel vuoto del vivere. L’hanno trovato con la siringa in vena e con i polsi tagliati, all’ultimo gradino della sua vertiginosa scala discendente. Rispetto a Pantani, gli è andata decisamente meglio. Un amico l’ha preso appena in tempo, trattenendolo per i capelli dall’aldilà che aveva mestamente già imboccato.
Il bel Frank, il dannato Frank, l’incorreggibile Frank, stavolta se la caverà. È ricoverato all’ospedale di Magenta, dove l’altro giorno l’hanno portato in condizioni molto serie. Al suo fianco, uno dei pochi amici rimasti: Mimmo, nipote di quel Palmiro Masciarelli che all’epoca fu scudiero fedele di Moser, e che da qualche mese stava cercando di offrire nella sua squadra «Acqua e Sapone» un’ultima chanche da corridore al celebre «Vidibì», come Vandenbroucke ama farsi chiamare con vezzo divistico.
Ha il fisico del ruolo, per certi narcisismi. Ripetto a Pantani, che era piccolo, pelato e con le orecchie a sventola, Frank è alto, belloccio e con la faccia da schiaffi che piace tanto alle donne. Difatti, ai luminosi albori della carriera, ne ha sempre dietro in corteo. Di quella stagione felice, si ricorda un primo matrimonio e un primo figlio. Negli ultimi anni, però, si aggrappa a Sara, una ragazza italiana che ha conosciuto proprio nel mondo del ciclismo, dove lavora come hostess. Con lei, un’altra bambina. All’inizio sembra amore folle ed eterno, ma da tempo ormai lei non ne vuole più sapere. «Vidibì» le ha chiesto troppo. Le ha tolto troppo.
Da lei, nella casa di Vermezzo, alle porte di Milano, torna anche un paio di giorni fa, cercando un ultimo residuo di calore familiare. Inutilmente. Frank arriva da Chieti, dove da mesi Masciarelli lo accudisce e lo incoraggia come un figlio, nella speranza - da sempre apparsa pia illusione - di restituirlo al ciclismo, o più che altro alla vita. Con il corridore, nel viaggio verso casa, il giovane Mimmo: un po’ amico, un po’ gendarme. Mandato dallo zio Masciarelli con precisi compiti di sorveglianza. Come Pantani ha insegnato, mai lasciare soli i derelitti del doping, della depressione, della droga. E difatti. Davanti alla nuova musata domestica, Frank getta la spugna: spesi gli ultimi soldi in una notte di perdizione, si ripresenta a casa completamente distrutto. Droga e quant’altro. Basta un attimo di solitudine per tentare l’ultimo gesto. Solo la prontezza di Mimmo, rientrato velocemente da una commissione, impedisce che l’ultima corsa finisca oltre il traguardo.
Ancora una volta ci si ritrova a porre la stessa, banale, ingenua domanda: perché? Perché un ragazzo baciato dal talento, che ha tutto per avere tutto dalla vita, sistematicamente sbaglia tutte le strade davanti a sé, quasi cerchi una lucida e irrinunciabile rovina? Forse, timidamente, si può dire che l’autodistruzione cominci proprio là, dove comincia la megalomane costruzione del proprio mito personale. Dove lo sport non è più passione giovanile, ma infernale laboratorio in cui confezionare un gigantesco Ego. Frank come Marco. Grandi vittorie nelle categorie giovanili, poi il passaggio precoce al professionismo, accompagnato dal marchio dorato del purosangue. Gli inizi nel ’94, a 20 anni. Al suo fianco, nel ruolo di consigliere e di maestro, lo zio Jean Luc, ex professionista di fama. Anche lui, però, finisce come finiscono in queste storie tutti i maestri che azzardano un poco di saggezza: buttati a mare. Rinnegati. Frank prosegue da solo, tra capricci, stramberie e colpi di testa. Arriva a correre anche in Italia, ingaggiato dalla famosa Mapei, come campione del futuro. Ma finisce male pure lì. Frank non è uomo da disciplina di squadra. Si considera naif, gli piace presentarsi da naif, prosegue da naif. Vince una Liegi-Bastogne-Liegi, il maggior traguardo, ma prestissimo si ficca nei guai. Nel ’98 finisce coinvolto nella prima storiaccia, un’inchiesta di doping che incastra un certo dottor Sainz, meglio noto nell’ambiente come dottor Mabuse. All’epoca raccontano ancora barzellette: parlano di prodotti omeopatici. Più in là, nel 2000, gli trovano a casa grosse quantità di testosterone. Frank racconta un’altra barzelletta: sono per il cane (morale dell’ultimo decennio doping: mai fare il cane di un ciclista, ti mette sempre in mezzo). Ma «Vidibì» non si cura del ridicolo. Impunito e strafottente, è avviato verso una deriva giudiziaria: nel 2002, una nuova perquisizione gli trova in casa quello che gli inquirenti definiscono «un arsenale chimico». Il tribunale belga lo condanna a duecento ore di lavori sociali, in ospedali e case di cura.
Ne avrebbe bisogno lui, della casa di cura. Come ne aveva bisogno, alla fine, Pantani. «Ma io non farò la sua fine», dice una volta «Vidibì» in un impeto d’orgoglio. Scosso dai fallimenti, obnubilato dalle nubi tossiche, strappa ancora qualche contratto, non certo sulla scorta dell’efficienza agonistica, ma semplicemente sulle ali di un ricordo, o di un’illusione: l’idea di un fuoriclasse che prima o poi dominerà le scene...
La storia invece lo ripropone durante l’ultima estate in una gara amatoriale, sotto mentite spoglie, tra impiegati fanatici e ragionieri ormonati. Corre con tesserino falso, intestato a tale Francesco Dal Ponte. Colto in fallo, cerca di buttarla in ridere. Ma è chiaro a tutti, ormai, come non ci sia più niente da ridere. Nemmeno il pietoso salvagente lanciato dall’ultimo direttore sportivo, «il fido Masciarelli», può riportarlo a riva. «Vidibì» è perso. Non c’è miracolo che possa restituirlo alle glorie della bicicletta. Adesso deve solo provare a correre diritto lungo i marciapiedi della vita. Non sarà facile.

Come è scritto nel «Conte di Montecristo», i peggiori naufragi sono quelli sulla terra ferma.

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