«Papà Ambrosoli, un antieroe fedele al proprio dovere»

Armato solo dei suoi princìpi lottò contro gli intrecci tra politica e affari

Luigi Mascheroni

«Mi capita a volte di dover raccontare chi è mio padre a gente che non ne ha mai sentito parlare. Ad esempio nelle scuole, a ragazzi nati parecchio dopo i fatti. E cerco di spiegare che Giorgio Ambrosoli fu prima di tutto un uomo libero: libero di opporsi alla violenza, libero di non cedere ai ricatti, libero di non accondiscendere alla corruzione e di non condividere un sistema che si avvale di strumenti illeciti, libero da sponsor o padrini politici, libero di essere coerente a se stesso. Questo cerco di far capire: l’uomo. Poi c’è la persona. Quando papà fu ucciso, nel luglio del ’79, io avevo otto anni. Eppure ho molti ricordi, o almeno mi sembra di averli, perché a volte l’impressione è di moltiplicare per cento lo stesso episodio. Ricordo quando mi accompagnava all’asilo, e poi alle elementari di via Ruffini, vicino a casa. Ricordo che i nostri saluti erano un lungo rito: lui mi accompagnava in classe, io all’uscita, e poi lui nuovamente in classe, al mio banco, ed io ancora all’uscita, e così via. Ricordo gli scherzi che faceva, la sua serenità. È difficile spiegare: si tende a descrivere mio padre come una persona severa, di poche parole, austera, quasi che il suo comportamento rigoroso e inflessibile debba per forza accompagnarsi a un carattere ombroso o taciturno. Non è così. Papà in realtà era ironico, divertente e per nulla assente. Capitava che lavorasse anche venti ore di seguito sulle carte, ma le altro quattro, per paradosso, le dedicava alla famiglia invece che al riposo. Non ho vissuto molto tempo con lui, ma è stato un ottimo padre: capace di capire i propri figli, capace di insegnare i valori».
«Certo, anche un ottimo avvocato: facoltà di giurisprudenza alla Statale, la laurea in diritto finanziario, uno studio in corso Magenta da libero professionista, esperto in liquidazioni amministrative, si mise in luce agli inizi degli anni Settanta come il più giovane di una équipe tecnica di supporto ai liquidatori della Società Finanziaria Italiana. Lavorò duro, con competenza. È per questo, credo, che l’allora governatore Guido Carli, quando dovette scegliere il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, la capofila dell’impero finanziario di Michele Sindona, pensò a lui. Era uno dei migliori professionisti sul mercato. È strano: fino a quel momento mio padre aveva lavorato per lo più in gruppo con altri colleghi. Ci crede? Mia mamma racconta che la prima cosa che le disse papà al telefono, quando chiamò da Roma dove aveva ricevuto l’incarico, fu: “Sono solo”».
Giorgio Ambrosoli sapeva scegliere le parole: poche, profetiche. La Banca d’Italia cominciò a indagare sulle irregolarità dell’istituto di credito di Sindona nel ’71. Intervenire però era difficile: il faccendiere siciliano è potente, ha molti amici nel mondo della finanza, nella politica, in Vaticano. Ci vogliono tre anni prima che il governatore chiami Ambrosoli. Il “liquidatore” si mette a studiare il meccanismo congeniato da Sindona, ne svela i funzionamenti, apre le scatole cinesi che nascondono società fasulle, smaschera le violazioni della legge bancaria e del codice penale, scopre i giri sporchi di denaro, mette a nudo una gigantesca truffa a danno dei risparmiatori e dello Stato. Sindona inizia a preoccuparsi, e i suoi compari a muoversi: prima amichevoli proposte di “composizioni bonarie”, poi i tentativi di corruzione infine minacce di morte. Ambrosoli non cede: rifiuta i progetti di salvataggio delle banche di Sindona, resiste alle pressioni dei partiti, va avanti per la sua strada. “Sarebbe bastato poco per salvarsi”, diranno dopo. Sarebbe bastato poco anche per salvarlo. Il 14 luglio 1979, ai suoi funerali, non presenziò alcuna autorità di governo.
«Al Paese papà ha lasciato molto: ben più dell’incarico professionale portato a termine in modo ineccepibile: ha lasciato un esempio altissimo di come si possa mantenere la propria libertà, anche a fronte delle scelte più drammatiche. Vede, spesso mi capita di incontrare persone che non conosco o conosco appena e che mi dicono, anche fuori dall’ambito professionale, che l’esempio di papà è stato loro d’aiuto quando si sono trovati davanti a una scelta difficile, in un momento di dubbio su quello che erano chiamati a fare. Ho conosciuto persone che conservano il testo della lettera che mio padre scrisse nel ’75, quasi un testamento morale di quattro anni precedente il suo omicidio, e che mamma scoprì per caso nella sua borsa e rimise a posto senza dire di averla letta, il passo dove scrisse È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di far qualcosa per il Paese... Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto... Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell’altro... Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi. “Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia, verso il Paese”. Ecco: questo è lo spirito che lo ha portato a impegnarsi per un’Italia nella quale non ci fosse spazio per intrecci di potere e illegalità, nella quale fosse chiaro che il rispetto delle regole deve essere preteso da tutti: in primo luogo da se stessi. E la cosa più incredibile... bizzarro Paese l’Italia... è che per aver detto questo e averlo messo in pratica è stato chiamato eroe. Per aver fatto il proprio dovere. E sì che mio padre tutto pensava nella vita tranne che diventare un eroe, e tanto meno di essere ricordato come tale. Se sono sicuro? Sì, mi creda. Papà era una persona che aveva in testa solo di fare fino in fondo ciò in cui credeva, non certo di poter fare qualcosa che lo portasse nella storia. Non aveva nessuna ambizione diversa dallo svolgere bene il suo lavoro e nessun desiderio se non stare con la sua famiglia, magari sul lago Maggiore, a Ronco di Ghiffa dove aveva passato l’infanzia. Ecco quello che desiderava, nient’altro. È importante che sia coltivato il suo insegnamento: che si può andare anche controcorrente; che dire “tanto lo fanno tutti” è un alibi; che si può non sgarrare, anche se la gente spesso fa finta di dimenticarselo, dai grandi scandali degli ultimi anni al professionista che non rilascia le fatture ai clienti. Sì, le fatture. Bisogna partire dalle piccole cose. Sa quale è un ricordo che mi è rimasto di papà? Un giorno alla “Straruffini”, la marcia organizzata dalla scuola, con noi bambini, gli insegnanti, i genitori e alla sera, finito tutto, mio padre nel cortile dell’istituto con la ramazza a pulire. Ecco: il senso del dovere, anche nelle piccole cose».


Quando l’avvocato Giorgio Ambrosoli morì, ucciso davanti al portone di casa in via Morozzo della Rocca da un killer mandato dalla mafia e pagato da Sindona, nel luglio del ’79, il figlio Umberto aveva otto anni. Oggi ne ha 36 anni, anche lui milanese, anche lui avvocato, ha due figli. Il più grande ha tre anni, si chiama anche lui Giorgio.

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