«Papà Giorgio Porcaro, una vita che è durata il tempo di uno sketch»

Il figlio Bruno racconta i tempi del Derby e l’amicizia con Abatantuono finita per la disputa sulla paternità del personaggio del «terrunciello»

Luigi Mascheroni

Bruno Porcaro ha ventitrè anni, per sovravvivere fa l'assicuratore («Ma vorrei lavorare in radio»), è appena tornato dall'Arizona dove ha partecipato al reality show Wild West («Un'esperienza che ti arricchisce ma non ti cambia, alla fine hai qualcosa in più nel tuo bagaglio ma sei sempre il solito pirla») e a Milano ci sta talmente bene che la prossima volta che partirà per il deserto, la prima cosa che mette in valigia è l'iPod con registrato i rumori del tram: «La mia vita è questa, altro che selvaggio West».
«La mia vita è questa, altro che selvaggio sud» è una frase che suo padre, Giorgio Porcaro - il “terrunciello” che parlava un dialetto tra il pugliese e il lombardo completamente inventato - magari non ha mai detto ma di sicuro ha pensato un milione di volte quando si trovava a tirar mattina in un'osteria sui Navigli e gli capitava di pensare alla «sua» Benevento, dove era nato nel '52 (anche se bausciava di esser di Madonnetta, “che non è un paese ma la Madonna che sta sulla guglia più alta del Duomo” diceva) e che lasciò a cinque anni per salire a Milano: «Mio nonno era finanziere: gli cambiavano spesso destinazione».
Giorgio Porcaro, invece, il massimo che cambiò fu strada, da via Caracciolo dove passò la gioventù a via Volta, dopo sposato. E quando al tramonto della carriera e della vita finì a Milano 3 probabilmente si sentì all'estero, lui che se avesse potuto avrebbe costruito una «muraglia milanese» sul parallelo di Porta Genova, perché da lì in giù sono tutti meridionali diceva. Lui che si considerava un milanese col pedigree, che mangiava busecca e risotto, lui che creò il personaggio culto del terrunciello e se lo vide scippare - rob de matt - dal suo miglior amico, Diego Abatantuono: stessi riccioli stessa classe diverso destino.
Comico di gran razza, tra i più geniali e dimenticati cabarettisti italiani degli ultimi trent'anni, per Giorgio Porcaro la vita è durata il tempo di uno sketch: una risata e via. Un'ascesa e caduta - ha detto qualcuno - che appartengono alla mitologia dell'icona clownistica, della risata che nasconde abissi di tragedia personale: la gavetta, gli applausi, il successo che ormai è lì basta stringere il pugno, poi le luci che si spengono all'improvviso, l'assenza della ribalta mentre gli amici vanno avanti, infine una storiaccia di droga - lassem perd - e la malattia.
Giorgio Porcaro se ne andato che non aveva neppure cinquant'anni nell'estate del 2002. Cancro, come tanti. «L'ha affrontato con forza incredibile, fino alla fine. E sì che ha sempre avuto una paura matta dei medici e degli ospedali. Eppure, ha accettato tutto pur di tentare di vincere il suo male. Ancora il giorno prima, che non aveva più voce, ha chiesto i medici come andava. Ci ha creduto davvero».
Ci ha creduto davvero anche quando entrò per la prima volta al Derby, il tempio della comicità milanese, era l'inverno del '72: «Anni speciali, di sicuro i più belli della sua vita, papà lo diceva sempre: gli anni di quando la tv non aveva ancora ucciso il cabaret, del Meazza senza il terzo anello che alla domenica ci andavi a piedi, gli anni che se avevi bisogno di qualcuno sapevi sempre dov'era senza cercarlo sul telefonino. Diceva che era un'altra città, meno caotica, più aperta».
Appunto. Per Porcaro le porte dello spettacolo si aprirono grazie a un grande amico che si chiama Gianfranco Funari il quale lo scaraventò sul palco del Derby con il suo gruppo, I mormoranti, che divideva con Bruno Gracieffa e il (futuro) cantautore Fabio Concato. Titolo del primo spettacolo: Da dove vieni tu?. La risposta è: Non lo so, ma so dove voglio andare, lontano. Infatti arriva La Tappezzeria, anno 1977, uno spettacolo teatrale di Enzo Jannacci e un signore che si chiamava Beppe Viola. Poi il passo dal teatro al cabaret, sempre con l'amico «Dieco», Mauro Di Francesco («Papà diceva che era il più simpatico, gliene facevano di tutte, una volta gli misero del peperoncino nel flauto che usava per il suo numero») e poi Boldi, Teocoli, il (futuro) romanziere Giorgio Faletti. E Jannacci. «Fu lui il primo a credere nel personaggio del terrunciello inventato da papà, poi però disse a Diego “Portalo avanti tu che c'hai più la faccia da meridionale”. Mio padre era un bonaccione, non si oppose. Poi Abatantuono che è un grande artista ne fece il suo capolavoro. Per un po’ rimasero amici, dopo ci fu la rottura e alla fine i tentativi di riavvicinamento, anche se non fu più come prima». Anche quando la grande stagione del Derby si chiude e il gruppo di amici sulle orme dei Gatti di Vicolo Miracoli salta dal cabaret al cinema, alla fine dei Settanta, non fu più come prima per Giorgio Porcaro.
Tra il '79 e l'83, ai tempi del leggendario b-movie all'italiana, infilò cinque film uno dietro l'altro, dall'indimenticato Si ringrazia la regione Puglia per averci fornito i milanesi (con un Boldi strepitoso a fare il verso a un simil-Berlusca) al fortunatamente dimenticato Sturmtruppen II. I suoi però non erano più caratteri da commedia dell'arte ma macchiette ridotte a rubare un'inquadratura ad attori, disemm inscì, come Jimmy il Fenomeno, Gegia, Pongo e Giancarlo Magalli. «Il rimpianto più grande di papà era di non aver avuto ciò che meritava. Sapeva di aver scritto una pagina della storia del cabaret ma non aveva ricevuto niente in cambio. Però non era risentito o arrabbiato. Gli scocciava certo, ma aveva un gran carattere, sapeva passarci sopra. Mi ricordo una sera, era già in ospedale. Abatantuono era in tv, a Controcampo, e a un certo punto lo saluta in diretta e gli dice: “Dai Giorgio che ce la fai”. Papà si commosse, sono certo che dentro di lui ha detto, “Ma sì, va là che ci si vuol bene”. Era fatto così».
Già, com'era fatto papà? «Un martello: irresistibile e incontenibile, come sul palco, uno che quando andavamo in metropolitana iniziava a fare le imitazioni in mezzo alla gente, io mi vergognavo e dicevo “Basta papà, dai” e lui niente, anzi ad alta voce: Scusa?! Che cousa! Sent'bello, i sso' milanesss. Ogni volta così». Lo diceva per far ridere, milanesss i cent pi cent, ma Porcaro, nonostante il cognome e un debole per le 128 Krups rosa con interni leopardati, milanese si sentiva davvero. «Non avrebbe abbandonato questa città per nulla al mondo, in Puglia andava una volta all'anno a trovare i parenti, ma poi subito su a Milano, dove peraltro diceva che il 70 per cento sono pugliesi. Gli piaceva tutto della città, ristoranti e osterie soprattutto, be’ per uno come lui che tutte le sere finito lo spettacolo si andava fuori a mangiare... Una cosa non sopportava: l'immigrazione, non dei terùn però, degli orientali, i giapponaiiis come diceva lui».

Ne diceva e ne faceva di cose, lui: parole e lingue inventate, zeppe, improvvisazioni, smorfie, tutte l'armamentario che fa di un vero artista quello che è: un talento naturale. Oggi purtroppo Giorgio Porcaro lo hanno dimenticato in tanti, quasi tutti. Verrebbe voglia di chiedergli scussa. Che in milanese si dice me dispiass.

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