«Papà Paolo Grassi, l’uomo che sognava una città-teatro»

La figlia Francesca racconta vita, successi e battaglie del grande «manager della cultura»: la nascita del «Piccolo», gli anni alla Scala e l’avventura in Rai

Luigi Mascheroni

A 23 anni, contestato per alcuni suoi articoli usciti sull’Avanti!, in una cartolina indirizzata al critico vicentino Eugenio Palmieri - per dire quanto fosse sicuro del proprio talento - scrisse: «Sono stato oltraggiato, offeso... Ma proseguo per la mia strada, vedrai cosa farò. Pochi uomini in Italia possono parlare di teatro come me». Era il ’43. Oggi, sessant’anni dopo, possiamo dire che aveva ragione. «È stato papà a inventare il teatro del Novecento».
Francesca Grassi vive in una bellissima casa di ringhiera dietro San Vittore, tappezzato di libri e locandine di spettacoli che hanno fatto epoca. È stata antiquaria, ha seguito allestimenti di mostre, realizzato stil life per riviste d’arredamento, è stata imprenditrice - «Non sono un genio come mio padre, mi sono dovuta arrangiare» - e oggi, insieme a un gruppo di amici di papà, si dedica completamente al “suo” progetto: far nascere a Milano la Fondazione «Paolo Grassi, la voce della cultura». Dato che ha la determinazione è un dono di famiglia, c’è da giurare che ci riuscirà in fretta. «L’idea è di entrare anche nei licei a fare lezione, per educare i ragazzi di oggi ad andare a teatro domani».
Esattamente quello che fece tutta la vita Paolo Grassi, che in scena entrò prestissimo: studente del Regio Liceo Ginnasio Parini, a 18 anni è già vice-critico teatrale del Sole di Milano e regista dello spettacolo Bertoldissimo; a 21 è manager della compagnia “Ninchi-Dori-Tumiati” con la quale porta sulle scene La cena delle beffe di Sem Benelli; a 22 dà vita al gruppo d’avanguardia “Palcoscenico”; a 23 dirige la collana teatrale della casa editrice Rosa&Ballo; a 28 anni fonda insieme a Giorgio Strehler quello che doveva essere - parole sue - “un teatro d’arte per tutti”: il Piccolo Teatro, inaugurato il 14 maggio del ’47 con l’Albergo dei poveri di Gorkij. Quando lo lascerà, 25 anni dopo, nel ’72, avrà messo in piedi 150 spettacoli, 8mila repliche, tournèe in 185 città di 30 paesi diversi. In quel momento i nomi di Paolo Grassi e Giorgio Strehler sono conosciuti da New York a Pechino.
«Paolo e Giorgio... si incontrarono che avevano 18 anni, alla fermata del tram all’angolo di via Putrella con corso Buenos Aires. Prima si erano incrociati assistendo a qualche spettacolo in città. Giorgio lo salutò e mio padre gli disse: “Noi non ci conosciamo, diamoci del lei”... Sarebbero diventati come fratelli». Dovettero passare ancora dieci anni e un conflitto mondiale prima che i due “fratelli”, entrambi figli adottivi di Milano, dessero vita a quella che rimane una delle più straordinarie avventure intellettuali dell’Italia moderna. A guerra appena finita, mentre il Paese non sa ancora da che parte iniziare a ricostruire, loro cominciano dalla cultura. Adocchiano dei locali in via Rovello, nel palazzo che era stato la casa del conte di Carmagnola, poi un cinema di terza visione e infine sede della milizia repubblichina, e decidono che quello è il luogo giusto per mettere in scena il loro sogno.
«Quando si trovarono là dentro, in quella sala buia e fatiscente, mio padre gli disse: “Te la senti, Giorgio?”. “Fammici pensare”, gli rispose. Il giorno dopo, Strehler disse a papà: “Se te la senti tu, me la sento anch’io”. In quel momento si divisero i compiti, una volta per sempre: uno si sarebbe occupato del palcoscenico, l’altro dell’organizzazione». Organizzazione, una parola nella quale sta tutto Paolo Grassi. «Papà era così: un grandissimo organizzatore. Della sua vita, di quella degli altri e della cultura. Era uno che sapeva costruire le situazioni, sistemarle, incastrarle. E tutto seguendo una sorta di imperativo morale».
«Il teatro è il miglior strumento di elevazione spirituale e di educazione culturale a disposizione della società», scrisse Paolo Grassi nel ’46: su questo costruì la sua idea di teatro come pubblico servizio, il sogno di fare ruotare l’intera città attorno ai palcoscenici, l’ambizione di recuperare un pubblico nuovo, non solo la borghesia ma anche impiegati, operai, studenti... tutta una nuova Milano. «Quella Milano che poi l’ha in parte dimenticato. Non voglio criticare la città, però provo un po’ di malinconia: mio padre, a parte il Piccolo, che oggi galleggia come un atollo in mezzo all’oceano, da questa città non ha avuto i riconoscimenti che merita. Addirittura quando è morto, nell’81, gli fu negato il Famedio, il tempio dei milanesi illustri. Abbiamo dovuto aspettare fino a due anni fa quando grazie anche all’intervento di Carlo Fontana siamo riusciti a portarcelo. E sì che papà ha dato tutto a Milano, la adorava. Per il suo modo di essere, così rigorosa, elegante, riservata. Come lui del resto. Mio padre era un uomo pubblico, sempre esposto, ma amava la riservatezza, la sua casa in via Medici, e poi la sua poltrona, dove riposava dopo pranzo, 15 minuti esatti e poi di nuovo al lavoro, e suoi libri, i suoi dieci amici scelti, i suoi ristoranti dove cenava finito lo spettacolo, il Santa Lucia, il Biffi Scala...».
Francesca ha molti ricordi del padre, ma “spezzati” in due: prima dei 4 anni e dopo i 14. «Quando ero piccolissima, papà si divise da mamma e se ne andò di casa. L’ho ritrovato molto più tardi, da ragazza. Un giorno presi tutto il coraggio che avevo, e telefonai a teatro, al Piccolo, chiedendo un appuntamento con il dottor Paolo Grassi. Il giorno dopo lo incontrai, e da allora non ci siamo più separati. Mi invitava ad andare a tutti gli spettacoli, mi infondeva l’amore per la lettura per cercare di fare di me una persona non colta ma “profonda”, mi portava in vacanza a Martina Franca per farmi amare il suo Sud, e qui a Milano, quando lavorava, mi dedicava quei dieci minuti preziosi nel suo ufficio della Scala...».
La Scala: Paolo Grassi ci arrivò, come sovrintendente, nel ’72, appena calato il sipario sull’epopea del Piccolo, e ci rimase fino all’inizio del ’77. «Il suo grande merito fu di portare alla Scala, pur rispettando la tradizione del teatro, la dinamicità del Piccolo: quando arrivò, fu come accendere un fuoco, quello che faceva in tutte le cose». Da una parte ripristinò lo smoking e riportò in auge le grandi toilette, dall’altra aprì il teatro a studenti e lavoratori con serate apposite e biglietti a basso costo. Come amava ripetere con quella sua erre arrotata, “L’arte si realizza solo se arriva a molti”». Una regola d’oro che portò sé anche quando entrò, nel ’77, alla Rai, da presidente. «Papà accettò l’incarico più che altro per obbligo verso se stesso. I primi sei mesi, a Roma, li passò in un residence tristissimo. Ricordo che mi disse: “I giornalisti sono troppi e mal utilizzati. Ne toglierò una parte”. Come sempre voleva mettere ordine, riorganizzare le cose, razionalizzare la situazione... Invece fu la situazione a travolgerlo».
Paolo Grassi al vertice della Rai «un uomo in trincea», si definiva, ci rimase tre anni, a lottare con i bilanci risicati, le faide interne, le ingerenze del Palazzo: «Mi ritiro dalla vita pubblica perché sono disgustato dalla iperpoliticità e dalla partitocrazia», disse al momento delle dimissioni. Lui, il Grande Vecchio dello spettacolo, aveva capito che era il momento di calare il sipario: un altro segno della sua grandezza. All’arte, del resto, aveva dato abbastanza.

Come scrisse in una lettera del ’76: «È stata la mia una vita tutta spesa per la mia città e lo spettacolo, in cui ho bruciato tutte le mie energie intellettuali e fisiche, con un amore per la scena e una nuova sua socialità che non saprei - almeno in me stesso - immaginare maggiore».

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