«Papà Scerbanenco, il milanese calibro 9 armato di lettera 22»

La figlia Cecilia racconta vita, miseria e trionfi del principe del giallo italiano, dalla Milano delle «peripatetiche» e quella dei dané facili...

Luigi Mascheroni

Si dice che negli ultimi anni, forse per scordarsi della lunga miseria sofferta, arrivasse al lavoro in Rolls Royce con l’autista. Una delle tante leggende che circolano attorno al “principe russo” (in realtà era una Mercedes, e l’affittava in occasioni speciali; e lui comunque era sì mezzo nobile, ma ucraino). Però è vero che dopo aver fatto la fame e alloggiato in pensioncine da due soldi - appena arrivato a Milano, nel ’28, e si chiamava ancora Vladimir Scerbanenko - quando poi divenne Giorgio Scerbanenco, giornalista conteso e scrittore incensato, vendutissimo e premiato con il “Gran Prix de la littérature policière”, allora si tolse lo sfizio di alloggiare nei grandi alberghi e cenare al Biffi.
«Gli ultimi anni sono belli da ricordare, ma i primi furono terribili. Tanto più che è difficile sapere come andarono davvero le cose. Papà non conservava nulla, a un certo punto si disfò del suo passato per ricostruirsi come personaggio. Comunque, quando arrivò in Italia con la madre, che aveva perso il marito nella rivoluzione russa, aveva 16 anni. Prima abitarono a Roma, poi scelsero Milano perché pensavano fosse più facile trovare lavoro. In realtà la situazione era dura: papà fece di tutto, tornitore e poi magazziniere alla Borletti in via Washington, lettighiere alla Croce Rossa, contabile in una ditta... Non aveva neppure finito le elementari, ma leggeva moltissimo, studiava di notte, scriveva. E presto Milano gli aprì le porte: nel ’31-32 era già giornalista: iniziò a Piccola, una rivista femminile dove pubblicò la sua prima novella...».
Cecilia Scerbanenco, 42 anni, una laurea in filosofia, fino a qualche anno fa abitava a Milano, dove è nata, ma ora vive in Friuli. Lavora nell’editoria: per Garzanti e Sellerio cura i libri “di famiglia” mentre per Mondadori traduce gialli e romanzi storici per le collane da edicola. Sta preparando un saggio sulla vita e le opere di papà. Anche se aveva appena sei anni quando l’ormai celebre e riverito Scerbanenco morì improvvisamente, con un sacco di lavoro ancora da finire ma all’apice della carriera, in un milanesissimo ottobre del ’69, la “materia” la conosce bene.
Quella prima novella gliela comprò Cesare Zavattini, allora in Rizzoli, e il resoconto di come quello straniero allampanato si presentò alla redazione di piazza Erba con un impermeabile appeso sopra le spalle magrissime e la camicia senza giacca, è già archiviato nell’anedottica del giallo all’italiana. Come la scalata che fece, a falcate degne del suo uno e novanta d’altezza, nel mondo del giornalismo, sempre “reparto” femminili: collaboratore, correttore di bozze, redattore, titolare di leggendarie rubriche di Posta del cuore, caporedattore, buongiorno signor direttore... «Un’escalation impressionante. Fu un periodo molto felice. Entrò subito nell’ambiente e già negli anni Quaranta pubblicava romanzi sotto pseudonimo e racconti persino sul Corriere».
Si sa: Scerbanenco fu una macchina da scrivere di incredibile prolificità (un migliaio tra racconti e novelle e un’ottantina di romanzi battuti sulla sua “lettera 22”) e altrettanta versatilità (ha spaziato in ogni campo della narrativa di genere: dal western alla fantascienza, dal rosa al noir). Ma a due cose, come scrittore, rimase attaccato più di tutte: al giallo che gli forniva la struttura della trama e a Milano che gli forniva l’ispirazione delle storie. «Milano: non poteva farne a meno. Credo che questa città per mio padre abbia rappresentato quello che la Toscana è stata per i geni del Rinascimento: ha permesso alla sua scrittura di crescere. È da qui che nascono i suoi capolavori. E infatti, una volta messo piede, ci rimase per tutta la vita. Dove abitava? All’inizio in centro, dove allora si trovavano molte case popolari. La prima, quando si sposò, a 19 anni, era in via Orti. Poi in via Plinio al 6 e in piazza Mercanti; dopo gli appartamenti di lusso in via Durini e via Manzoni, a seconda delle vicissitudini sentimentali e degli avanzamenti di carriera. Le zone che gli piacevano di più erano però Porta Venezia e piazza Leonardo da Vinci, quelle di Duca Lamberti». Duca Lamberti: il medico-investigatore che ha scritto una pagina epica della letteratura gialla, anzi quattro, dai titoli inequivocabili: Venere privata, Traditori di tutti, I ragazzi del massacro e I milanesi ammazzano al sabato. E siamo già nell’Italia degli anni Sessanta, nella Milano del boom che fa bang, quella dei dané facili e delle pistolettate, la ormai lontanissima Milan by calibro 9.
«La odiava e l’amava, Milano. All’inizio, almeno a leggere alcune sue lettere, ebbe un rapporto difficile con la città. Fece fatica a capirla, a “entrarci”. Poi però una volta dentro, si trovò benissimo. Soprattutto negli anni ’60: era una Milano dalla vita se non dolce brillante, con i pregi di quella che è ancora una città di provincia e insieme è già quasi metropoli. Dei milanesi gli piaceva la capacità di lavorare e di fare, detestava l’eccesso e l’ostentazione».
In questa Milano che amava e odiava, dagli anni Trenta quando in piazza Oberdan c’erano ancora le “peripatetiche” fino ai Sessanta quando sulla circonvallazione sgommavano le Giuliette, visse e scrisse: due verbi che per Scerbanenco, ucraino d’origine, significavano la stessa cosa. «Al di là delle redazioni, frequentava la Bice di via Manzoni e la Tavernetta di Elio in piazza Cavour, locale che piaceva anche a Montale: il vecchio proprietario di Montanelli e di mio padre. Si erano conosciuti prima al Corriere e poi in Svizzera, durante la guerra. Ho ancora alcune lettere che si scrissero». Lo straniero ormai si era milanesizzato: «Frequentava il giro dei giornalisti dell’epoca: Emilio Radius, i fratelli Sprea, Camilla Cederna che aveva iniziato a collaborare al Corriere, e poi i Garzanti, la famiglia Rizzoli, il disegnatore del Bertoldo Giaci Mondaini, padre di Sandra. E poi le scrittrici, da Milly Dandolo a Brunella Gasperini con la quale era molto amico. Anche se veramente papà era amico di tutti, aveva un bel carattere...».
Già, com’era papà? «Mah, aveva una personalità molto complessa, questo è chiaro, basti pensare a tutti gli pseudonimi, ma anche al modo in cui passava con disinvoltura da un genere letterario all’altro. Personalmente lo ricordo come una persona severa sì, ma molto presente. Si usciva a cena, ci portava con lui ai convegni o ai premi. Addirittura accompagnava me e mia sorella Germana a scuola, cosa inusuale a quei tempi per un padre. Sì, rigido ma sensibile. Assomiglia al suo Duca Lamberti, un pizzico meno di aggressività e un pizzico in più di dolcezza. Identici invece per la capacità di cogliere la psicologia delle persone nelle situazioni difficili e l’anima di una società nei momenti di crisi».


Esattamente le qualità che gli hanno permesso di mettere a nudo, senza scomodare Balzac né Simenon, una città resa violenta dall’incubo del denaro facile e dal sogno del facile benessere: Una città sprofondata in storiacce di omicidi in pineta, massacri estivi, minorenni da bruciare, tratta delle bianche, delitti a pagamento. Titoli perfetti per dei racconti.

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