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Papalia, il pm che da nove anni vuol ammanettare il Carroccio

Dal blitz della Digos in via Bellerio alle inchieste sui Serenissimi, i Cobas del latte, la Life: l’eterno braccio di ferro tra il magistrato e i lumbard

Papalia, il pm che da nove anni vuol ammanettare il Carroccio

Adalberto Signore

da Milano

C’è una domanda che varrebbe la pena fare al procuratore capo di Verona Guido Papalia. E cioè se abbia mai avuto tra le mani lo Statuto della Lega. Non quello dei primi anni ’90, quando Umberto Bossi passava per uno squinternato che di lì a qualche anno la politica avrebbe dimenticato per sempre. Ma lo Statuto votato dal congresso federale del marzo 2002 con il Carroccio al governo del paese. Già, perché l’articolo 1 è eloquente: «La Lega Nord ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana». Insomma, non si capisce perché oggi - nove anni dopo l’apertura del primo fascicolo contro mezzo Stato maggiore del Carroccio - la magistratura non proceda pure contro tre ministri in carica e un discreto numero di parlamentari.
Il giorno che segna il big bang della querelle infinita tra Papalia e la Lega è il 12 agosto 1996, quando il pm veronese decide di aprire un inchiesta contro il Carroccio ipotizzando reati da ergastolo: attentato all’integrità dello Stato, attentato alla Costituzione, violazioni ai divieti di associazioni militari e di associazioni segrete. Da quel giorno, tra via Bellerio e la procura di Verona sarà guerra aperta.
La prima vera battaglia campale - e non solo in senso lato - arriva il 18 settembre dello stesso anno. L’ordine parte direttamente da Papalia: perquisire le abitazioni degli esponenti leghisti e la sede del partito alla ricerca degli elenchi dei volontari della Guardia nazionale padana (che, secondo i magistrati, sarebbe l’associazione militare e segreta). Le questure di Verona e Milano danno il via libera, la Digos esegue. Alle sette di mattina vengono perquisite le case di Corinto Marchini (ex senatore), Enzo Flego (ex deputato) e Sandrino Speri (segretario provinciale di Verona), poi la sede veneta del Carroccio. Gli investigatori sequestrano bandiere e camice verdi e alle 11 arrivano in via Bellerio. Ad aspettarli c’è Roberto Maroni, deputato ed ex ministro dell’Interno. Si oppone perché «non si può perquisire la sede di un partito politico con un mandato che riguarda tre militanti». Si apre una disputa che andrà avanti fino a sera, quando la Digos entrerà con la forza. Urla, sputi, calci, pugni, Bossi colpito allo stomaco, Maroni alla testa e nel basso ventre (finirà in ospedale). Più o meno alle nove la polizia lascia via Bellerio. E si porta via un bottino di prove davvero compromettenti: volantini, manifesti, bandiere e camice verdi ancora nel cellophane. Il 31 gennaio 2004, otto anni dopo, la Corte Costituzionale giudicherà la perquisizione «un atto illegittimo». Resterà il peccato originale di uno scontro che ancora non si è mai sopito.
«Papalia è solo un piccolo magistrato, è la rotella ultima dell’ingranaggio che si è messo in moto», tuona poco dopo Bossi. «Quello lì - dice il Senatùr - fa opera di cecchinaggio politico, hanno paura della Padania». Lui, però, non si fa intimidire e apre un altro capitolo. Alcuni degli otto Serenissimi del blitz di San Marco del maggio ’97 sono del veronese e così Papalia decide di indagarli. «Si tratta di un’organizzazione - dice - che ha una certa dimensione ed è coordinata da qualcuno». Il Senatùr alza il tiro: «Dietro Papalia c’è il presidente della Repubblica, c’è il regime, ci sono le chiese: la Dc e gli ex comunisti. Le idee politiche si combattono politicamente, non con la magistratura. Perché in questo modo nascono i regimi».
Nel novembre ’97 Bossi fa sapere che «Papalia si è rifatto vivo». «Ha mandato la Finanza in una società della Lega che è proprietaria di questo stabile (la sede di via Bellerio, ndr), a documentarsi su come è stato pagato. Non sa resistere, cerca un corpo contundente...». Poi, una serie di inchieste secondarie: contro i Cobas del latte e, soprattutto, la Life (Liberi imprenditori federalisti europei). L’ex segretario Fabio Padovan viene indagato prima per apologia di reato (aveva difeso i Serenissimi) poi per terrorismo perché capo della presunta «Brigata leon».
Lo scontro continua senza sosta. Si arriva al 2001, quando Papalia apre un fascicolo contro sei leghisti che hanno raccolto firme per sgomberare un campo nomadi abusivo a Verona. Lo scorso novembre Flavio e Barbara Tosi, Matteo Bragantini, Luca Coletto, Enrico Corsi e Maurizio Filippi vengono condannati a sei mesi per discriminazione razziale con una sentenza che paragona le battaglie della Lega ai primi anni del nazionalsocialismo che portò all’ascesa di Hitler. La reazione del Carroccio è violenta. Il 14 febbraio la Lega è per le strade di Verona al grido «Papalia, Papalia il tuo posto è la Turchia». Chiude il comizio un Roberto Calderoli in toga.

«In nome del popolo padano - dice rivolto ai giudici - vi condanno a tornare sui banchi di scuola perché conoscete codici e codicilli ma non il buon senso».

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