Il paradiso? È a portata di mano ma non è uno spot

Il paradiso cristiano sfida la ragione in maniera più violenta di quello buddista o del nulla post mortem dei materialisti. Invece di un rarefatto nirvana in cui tutte le differenze si annientano, o di un enorme buco nero che inghiotte ogni esistenza nell’oblio, la tradizione cattolica promette invece il paradosso della resurrezione dei corpi glorificati, l’eternità beata delle creature messe faccia a faccia con Dio. Chi non recepisce questa sfida tende a figurarsi il paradiso come un luogo noioso, forse preferirebbe andare all’inferno, che crede più eroico. C’è chi legge solo la prima cantica della Commedia dantesca, e ritiene tediosa la traversata dell’Empireo che chiude il poema.
Eppure il paradiso è «un orizzonte di fecondità debordante, non un sogno sterilizzante». Almeno così lo presenta Fabrice Hadjadj nel suo La Paradis à la porte (Seuil, che arriverà da noi in primavera per i tipi di Lindau). Un saggio su «una gioia che turba», che sfida appunto la nostra ragione, pretende di farci sentire il profumo dell’eterno e di farci sfiorare i corpi gloriosi dell’aldilà. Hadjadj è un filosofo cattolico, ma non si limita a citare i testi sacri o teologici. Anzi, le prefigurazioni più fulgide della gioia celeste le trova nella letteratura e nell’arte. A partite dalla «metafisica del saluto» di Beatrice che spalanca l’intero universo agli occhi e ai sensi di Dante. Ma questo oltraggio extraterrestre, più che terrestre, compare anche in Proust, Baudelaire, Kafka, nella poesia di Yves Bonnefoy e nella musica di Mozart. Perfino nell’opera di Nietzsche, dato che l’autore de L’anticristo esprime, coscientemente o meno, «una gratitudine senza riserva» che lo avvicina alla santità.
Il saggio di Hadjadj obbliga a riflettere su quanto il paradiso sia vicino: non oltre un abisso di lontananza, ma a portata di mano. Il paradiso è già qui, il mondo terrestre rinvia ai cieli, preme sul nostro mondo, è il «primo motore immobile della storia». Ecco perché può diventare «l’ultimo rifugio dell’illusione». Rifiutando il paradiso celeste si finisce per «lasciare libero corso alle sue parodie terrene, sempre pericolose», come gli ultimi due secoli hanno dimostrato con abbondanza di prove. Separare definitivamente la Gerusalemme terrestre da quella celeste produce totalitarismi liberticidi o ascetismi che umiliano la creazione.

Il pretendere il paradiso qui e ora, come volevano gli slogan del ’68 ha trovato una poco nobile conclusione nel consumismo da ipermercato, nello spot pubblicitario più efficace di una provocazione surrealista. Tutto e subito possiamo permettercelo facendo shopping, ignorando che la ricchezza posta sugli scaffali del paradiso europeo è prodotta «nell’inferno cinese».

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