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Paradossale ricerca di normalità in un Paese per forza «diverso»

Lo scrittore Amos Oz, in uno dei suoi libri, descrive Tel Aviv come una città dove la gente parla ebraico di giorno e sogna in tutte le lingue di notte. Città costruita sulla sabbia da successive ondate di profughi che vi hanno messo radici pur continuando a guardare verso quel Mediterraneo che li separa dalle terre di sradicata origine, Tel Aviv aspira alla normalità che gli ebrei hanno sempre cercato nell’assimilazione con gli altri popoli, senza mai trovarla.
Il voler trasformare questa città dove la vita non si ferma mai, freneticamente multiculturale e multietnica, nel centro mondiale del movimento omosessuale appare perciò al tempo stesso come un’espressione di volontà di ribellione e di spasmodica ricerca di normalità.
Non è un fenomeno nuovo per il popolo d’Israele. Basta leggere le minacciose invettive dei profeti biblici contro l’idolatria e le anomalie di comportamento - religioso, politico, sessuale, sociale - negli antichi Stati ebraici, oppure la storia della rivolta dei Maccabei contro le tendenze assimilatrici dell’aristocrazia ebraica nei confronti dell’ellenismo, per rendersi conto che «non c’è nulla di nuovo sotto il sole». Si tratta, in un certo senso, della continuazione del perenne scontro fra l’unicità di destino basata sull’ingiunzione divina «di essere santi perché Io sono santo», e l’unicità di non essere mai come gli altri per difetto o per eccesso. Questa costante della realtà ebraica si ritrova oggi in Israele espressa in movimenti laici o religiosi che hanno in comune un punto: la passione per l’osservanza o per il rifiuto dell’austera, aristocratica sacralità del monoteismo morale ebraico.
C’è dunque qualcosa di molto vecchio e allo stesso tempo di molto nuovo nell’ambizione dei gay israeliani di trasformare Tel Aviv nella capitale omosessuale mondiale, oltre, naturalmente, ad interessi economici e turistici evidenti.
Da un lato, come nelle società cristiane europee - Spagna, Italia, Germania - a lungo soggette a forti controlli clericali, specialmente nell’ambito del comportamento sessuale, c’è oggi in Israele la volontà di rivolta contro l’establishment religioso rabbinico che dispone ancora di un forte peso politico ed economico nel Paese, non accompagnato da un’esemplare condotta morale, e ancor meno da aperture verso la modernità. Allo stesso tempo c’è la rivolta paradossalmente «laica» contro la religione laica del sionismo. Una fede austera, pionieristica, egualitaria della quale sono rimasti solo alcuni simboli esteriori, che ha rivoluzionato l’ebraismo non meno di quanto abbia fatto la Rivoluzione francese per l’Occidente. Il sionismo ha creato non solo uno Stato sovrano potente e moderno, ma anche la prima comunità non sacra della storia ebraica nella quale la sovranità del popolo si è sostituita alla sovranità divina, e «l’elezione» non risiede più nella custodia del sacro, ma nella ricerca di molteplici mimetizzazioni culturali.
La proposta dell’organizzazione omosessuale israeliana si pone dunque in questa logica presente e passata.

Ma nell’ambizione di fare di Tel Aviv il centro mondiale di un movimento di 70 milioni di individui, c’è una volta di più l’espressione di quello sforzo di ricerca di definizione dell’identità ebraica che impedisce allo Stato di sottrarsi a un destino che lo obbliga, volente o nolente, a rimanere - per eccesso o per difetto - sempre diverso dagli altri.

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