Politica

Parigi in fila davanti al tempio di Louis Vuitton

Daniela Fedi

da Parigi

L'Egitto dei faraoni ci ha tramandato le piramidi, gli antichi greci il Partenone, noi per testimoniare la nostra civiltà ai posteri possiamo lasciare un tempio del lusso come il nuovo global store Louis Vuitton di Parigi? Veniva spontaneo chiederselo durante la visita inaugurale di questa incredibile casa dei desideri aperta da ieri al numero 101 degli Champs Elysées. «Siamo riusciti a creare quattro livelli su un unico piano» ha detto Eric Carlson, l'architetto americano che ha disegnato un sistema circolatorio grazie al quale i classici piani di vendita vengono sostituiti da una serie di terrazze armoniosamente dislocate lungo un'unica spirale. «È un po' come un Guggenheim al contrario» ha aggiunto sorridendo davanti alla faccia esterrefatta degli invitati che, una volta entrati, si ritrovavano in un soffio (40 secondi cronometrati) al quarto piano avendo preso «solo» una scala mobile dotata per tutta la lunghezza (20 metri) di un gigantesco pannello a fibre ottiche che diffonde l'opera del video-artista statunitense Tim White-Sobieski. Qualcuno, nel frattempo, si è attardato nello spettacolare atrio con 1.900 aste in inox levigato (tutte insieme misurano 14 chilometri) sospese a 20 metri d'altezza e riflesse in una parete a specchio da 260 metri quadri. «Ci teniamo a chiamarlo “Maison” anche se l'immobile è grande e la messa in scena grandiosa» ha concluso Bernard Arnault, presidente e fondatore del Gruppo Lvmh (Louis Vuitton Moet Hennessy) a cui si deve questo formidabile monumento al lusso e all'art de vivre della Francia. «Direi che ai posteri lasceremo più musei che negozi» ha finalmente risposto Peter Marino, l'architetto che ha curato gli interni del mega store Vuitton tanto nella sua prima edizione datata 1998 (anno del lancio della linea di prêt-à-porter disegnata da Marc Jacobs) sia in quella presentata ieri. «Le boutique sono legate alla moda - ha aggiunto - pertanto devono cambiare ed evolversi con il gusto dei tempi». È questa, in effetti, l'unica chiave di lettura per la vitaminica sfilata Vuitton andata in scena l'altra sera al Petit Palais prima di una fantasmagorica festa per 2.000 persone tra cui innumerevoli celebrità ugualmente stupefatte dalla superba performance privata offerta dall'artista Vanessa Beecroft. A chi gli chiedeva se il minuto di silenzio nella colonna sonora del defilé era un doveroso omaggio al lavoro di Gianni Versace molto presente su questa passerella, l'ottimo Marc Jacobs ha risposto: «Certo, è stato un eroe per la moda degli anni Ottanta, amava l'idea di una donna forte, colorata e decorata che serpeggia anche in questa collezione». Dire «serpeggiare» è poco: mancavano solo le teste di Medusa sulle borchie che decoravano il fulminante minisoprabito rosso oppure sulle graffette metalliche con cui erano cuciti molti dei modelli, tutti corti e ipercolorati, per sentirsi portare indietro nel tempo. «Questo proprio no - ha detto Jacobs - sono partito da quell'estetica ma l'ho mescolata con qualcosa degli indiani d'America e con la mitica Graceland di Elvis Presley per poi arrivare a un nuovo punto di vista sull'eleganza firmata Vuitton». Tanto di cappello per l'onestà intellettuale, onore al merito per gli accessori così belli che veniva voglia di saltare in passerella e strapparli alle modelle, ma sugli abiti il giudizio al momento è sospeso anche se di sicuro nel nuovo global store parigino, come in tutte le boutique Vuitton del mondo, tra sei mesi li venderanno come panini. Difficile credere che avranno la stessa sorte i bellissimi modelli creati da Alber Elbaz per Lanvin: un inno moderno e sofisticato all'algida perfezione della geisha.

In un mondo gentile tutte le donne dovrebbero aver voglia di mettersi un semplice tubino bianco rifinito sulla schiena dall'interessante rivisitazione dell'Obi (l'alta cintura del kimono) offerta dall'ottimo stilista francese.

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