Manette per i giornalisti. E pene che fioccano come la neve di emendamento in emendamento: quattro anni di carcere, no sei, addirittura otto per chi ruba una carta segreta e la pubblica. Che poi è un po' il succo della professione: si dà una notizia che fino a un minuto prima era nascosta in un cassetto. O dentro l'armadio blindato di una qualche autorità. Non importa.
Pezzi della maggioranza si esibiscono con proposte, per ora solo tali, muscolari. Fronte numero uno: la diffamazione. Al Senato l'idea di incarcerare chi scrive ha fatto capolino, poi è stata precipitosamente ritirata.
A quel punto, la bagarre si è spostata alla Camera, dove si parla di cybersecurity: e qui alcuni deputati - anche di Azione - hanno suggerito lo stesso spartito. Galera con dosi da cavallo di giustizialismo.
Insomma, si va avanti per tornare indietro. E spezzoni del centrodestra smentiscono a grandi linee quello che hanno predicato per decenni: meno carcere e meno leggi, in una foresta impenetrabile di norme che è assai peggio della selva oscura di Dante.
Qui, almeno in Commissione, si fabbricano illeciti nuovi di zecca e si alzano le pene col pallottoliere.
Il legislatore fa la faccia feroce, o almeno ci prova, convinto che questo possa oscurare gli scoop oltre la siepe.
Non si tratta, sia chiaro, di difendere con spirito corporativo il quarto potere, ma semmai di dare le risposte che un'opinione pubblica liberale si aspetta da un parlamento all'altezza della sfida.
La società vuole un'informazione non omologata ed equilibrata, capace di pungere e di criticare, senza trasformare la libertà in una pietra da scagliare contro questo o quello.
Certo, chi confeziona un pezzo o un servizio televisivo deve verificare le parole che compongono il suo arsenale. La verità di questo mestiere sta tutta nel rapporto di lealtà con chi ascolta o legge.
Bene. L'articolo non gode di extraterritorialità ma c'è modo e modo di punire. La rettifica, anzitutto. Le pene pecuniarie, che sono terribilmente concrete e possono fare male, molto male. Poi, se necessario, anche quelle interdittive dalla professione. Inutile immaginare condanne ad anni e anni di carcere che poi, conoscendo un minimo il nostro Paese, arriveranno, se arriveranno, in tempi remoti, saranno fra un cavillo e l'altro poco più che virtuali, serviranno solo a rilanciare il perenne martirologio della categoria. Ma comunque disegneranno una museruola d'altri tempi sulla bocca del cane che abbaia al potere.
Non voglio scomodare la Corte costituzionale la Corte dei diritti dell'uomo, che pure hanno pronunciato un doppio no, ma esistono altri strumenti più paralizzanti ed efficaci, anche se meno altisonanti.
Pure sul versante delle fughe di notizie e dintorni, sarebbe bene riflettere, come giustamente auspica il sottosegretario Alfredo Mantovano. Il cronista, per definizione, mette il naso e sbircia dove non dovrebbe. Se no, farebbe altro. Si cominci dunque a colpire chi fa uscire carte riservate a pacchi - vedi le procure di tante inchieste da prima pagina - e si fissino pure griglie certe a tutela della dignità e del decoro di chi nell'arena dell'informazione sarebbe sballottato come un fuscello in balia dei venti.
Il giornalista
bravo non è per forza quello perfido o peggio scorretto ma lo Stato trovi altri modi per sanzionare i diritti violati. Il carcere per la stampa sa tanto di repressione, ed è solo uno spauracchio per lasciare tutto come prima.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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