Cultura e Spettacoli

Parli straniero? Finisci alla Lubjanka

Il racconto inedito di una traduttrice russa incarcerata nel 1945 per tre anni. Solo perché «poteva»tradire il suo Paese

Parli straniero? Finisci alla Lubjanka

Mosca, 8 settembre 1944. Si presentano in tre, all’alba. Li accompagna la responsabile del condominio. Deve fare da testimone: come stabilisce la legge. Mi consegnano l'ordine di perquisizione e di arresto. Il mio delitto? Per la mia attività di traduttrice che mi ha portato in Europa, ero «in condizione di compiere un crimine» (Codice penale dell’Urss). Faccio così il mio ingresso alla Lubjanka. Qualcuno dei miei amici chiama direttamente Berija. «Non siamo più nel 1937, se l’hanno presa vuol dire che un motivo c’è» risponde il boia .

In cella ci sono uno sgabello, un comodino e una luce accecante da 200 watt. Entra un tenente con le mostrine azzurre.
«Cognome, nome e patronimico».
Gli rispondo. Dopo un po’ ne entra un altro.
«Cognome, nome...».
«Li ho appena detti!».
«Cognome, nome...».
Alzo la voce, irritata. L’uomo annota qualcosa e se ne va. Irrompe una donna.
«Cognome, nome...».
Mugugno qualcosa.
«Fuori! Mani dietro la schiena!».

Mi portano in una stanza dove c’è un misuratore di statura. Poi di nuovo in cella. Entra un uomo in camice bianco. Mi accompagna dove c’è una doccia, viscida di anni di sporcizia. Resto accanto al getto, ma non mi lavo. Mi riportano in cella.
Compare una ragazza con i gradi sulla divisa e mi consegna una ricevuta: 8 settembre 1944. Julia Bril’ consegna alla prigione interna del ministero per la Sicurezza dell’Urss un orologio, un notes, una penna, un portacipria, 20 rubli...
«Fuori, senza roba!».

Vengo riportata in cella. Il mio accompagnatore schiocca la lingua: intuisco che è una specie di segnale per evitare che gli arrestati, se si incrociano, possano riconoscersi. Una volta, infatti, mi spinge contro una garitta e mi tiene ferma sino a quando non è passato un altro prigioniero. Corridoi, scale, porte, ancora porte. Poi entriamo in una cella a due posti. Su una brandina è seduta una giovane donna dal volto esangue.
«È vietato sdraiarsi prima della ritirata!».

Dopo l’ultimo ordine, la porta sbatte, lo spioncino resta aperto qualche secondo. Mi meraviglio della sincronia con cui si muovono quelle persone, di questa micidiale catena di montaggio. Quanto dura il primo giorno? Sicuramente molto più di 48 ore. Dopo la rabbia, una spossatezza senza fine. E, per quanto strano - com’ero sciocca! -, penso che tutto si chiarirà presto e potrò tornare a casa.
«Mi chiamo Neddy, Nadezda Neugebauer e sono qui da tre anni e tre mesi» si presenta la mia compagna di cella, spiegandomi le regole per dormire, mangiare, uscire per l’ora d’aria. E come tingermi le labbra con un pezzetto di barbabietola pescato nella sbobba, rabberciare le calze con un ago fatto con una lisca di pesce. Nonostante tutto il tempo trascorso lì, non è ancora riuscita ad abituarsi agli interrogatori. Quando, la sera, dopo la ritirata, la vengono a prendere, si tira su le calze con le mani che le tremano e non riesce a infilare i piedi nelle scarpe. È alta, snella, ancora piacente e ha solo trent’anni.

In un anno fra lager e prigione ebbi modo di osservare i detenuti. A parte i delinquenti comuni, tutti gli altri erano persone di vario valore, ma tutte innocenti.
[...]
Dopo qualche giorno, sono convocata dal giudice istruttore, il maggiore Kovalenko, un tipo segaligno, di mezza età, che parla e impreca continuamente, ma che con me - a parte qualche scatto d’ira - si comporta correttamente. Mi dice che sono accusata di alto tradimento (articolo 58). Pena prevista: la fucilazione o 15 anni di lager a regime speciale. Comincia il tira e molla. Per poter stilare un verbale mi trattiene delle ore. Prima cerca di persuadermi a confessare in maniera blanda, poi di punto in bianco comincia a urlare e a battere i pugni sul tavolo. Uno dei tanti interrogatori lo dedica al mio «contatto» con un militare americano sui vent’anni che ho incontrato all’angolo fra viale Tverskoj e via Gor’kij. Mi aveva chiesto informazioni su una strada, dopo essersi rivolto ad altri che non capivano la sua lingua. Avevo raccontato l’episodio ai miei colleghi della Tass e qualcuno aveva riferito dei miei pericolosi legami con uno straniero. Spiego tutto a Kovalenko, ma non c’è niente da fare. Dopo circa un mese di interrogatori, passa l’incarico al suo vice, un piccolo tenente strabico che prima di entrare nella polizia segreta si è laureato in Storia all’ateneo di Mosca. Ma ha voglia di parlare d’altro e passiamo ore a conversare amabilmente. Quando però sente che Kovalenko sta per entrare nel suo ufficio, scatta in piedi e comincia a urlare: «Se ti ostini sarà peggio per te! Farai meglio a confessare». Appena la porta dell’ufficio accanto si chiude, il tenente si siede.

«Dov’eravamo rimasti?».
L’inchiesta è a un punto morto. Kovalenko non riesce a trovare una sola prova. Furioso, mi manda alla prigione militare di Lefortovo, a Mosca: è una bara di ferro e di pietra, a regime severissimo. Vi rimango tre mesi. Vengo interrogata anche di notte. Mentre prima scorrevo solamente i verbali, adesso li leggo per intero, prima di firmare. Potrebbero infilarci di tutto. Infine mi chiamano per firmare il «201»: la presa visione dell’inchiesta ormai conclusa e delle deposizioni dei testimoni. Non tutte, però. La pratica non contiene la denuncia a mio carico firmata da un noto scrittore per ragazzi, nonché delatore.

Quando leggo: «Per non avere commesso il fatto, ma tenuto conto che si trovava in condizione di poterlo commettere, le si fa carico dell’articolo 7, comma 35» (da tre a cinque anni di lager), mi si annebbia la vista. E io che speravo ancora - scioccamente - nella Zim del Kgb che mi riportasse a casa. Reagisco sdegnata.
[...]
«Chi vi ha autorizzati a trasformare delle persone normali in antisovietici? Verrà il giorno in cui ne risponderete al popolo», esplodo.


Kovalenko mi interrompe:
«Perché si scalda tanto? Tre anni passeranno in un soffio! Vedrà che ci rincontreremo davanti a una tazza di tè».

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