Milano«Non è con le suggestioni o con il vibrato richiamo alla finanza etica che si ricostruiscono i reati nelle aule di tribunale». Basterebbe questo passaggio - pagina 264 delle motivazioni - per capire il solco che il caso Parmalat ha scavato nella magistratura milanese.
Tre mesi e mezzo fa, il 18 dicembre, quando il tribunale presieduto da Luisa Ponti condannò a dieci anni Calisto Tanzi ma assolse tutti i suoi coimputati - ed in particolare Bank of America - si capì che la sconfitta per la Procura era stata netta: i difensori si abbracciavano tra i banchi, i tre pm (Francesco Greco, Eugenio Fusco e Carlo Nocerino) lasciavano laula scuri in volto. Il giorno dopo un pezzo del Sole-24 Ore attribuiva a uno dei pm un giudizio («sentenza sciatta») che il tribunale non ha mai digerito e che ora restituisce alla Procura. Con gli interessi.
La lettura integrale delle motivazioni (disponibili su ilgiornale.it) conferma che nella valutazione del ruolo centrale di Calisto Tanzi i giudici e la Procura hanno visto le cose allo stesso modo: e la condanna a dieci anni (che non verrà mai scontata per rispetto alletà, ed è semmai questo a fare un certo effetto) ne è la conferma. Ma scorrendo le 350 pagine scritte dal presidente Ponti e dal giudice a latere Giuseppe Gennari si coglie con evidenza una divergenza di fondo che si traduce in una bocciatura clamorosa di una delle linee guida della Procura milanese in tema di tutela della trasparenza dei mercati.
Questa tutela, nella strategia del pool guidato dal procuratore aggiunto Francesco Greco, passa soprattutto per il reato di aggiotaggio, cioè con il trattamento severo delle bugie raccontate agli investitori. Ma la sentenza ridimensiona molto il campo di applicazione del reato. Certo, Tanzi ne risponde. Ma non ne rispondono i membri del collegio sindacale di Parmalat. E soprattutto non ne risponde Bofa, la banca che per anni tenne a galla limpero di Tanzi e le sue bugie.
I giudici affermano che Bank of America non aveva alcun obbligo di raccontare al mondo la verità su Parmalat, e lo fanno con toni quasi irriverenti: «L'idea che Bofa, dopo avere asseritamente appreso determinate notizie riguardanti le condizioni economiche e patrimoniali di Parmalat - magari chiudendo una operazione in Brasile o in Sudafrica - avesse l'obbligo di comunicarle formalmente alla comunità degli investitori sul mercato milanese è assurda e del tutto sfornita di qualsiasi base normativa». E ancora: «Il dottor Greco nella requisitoria relativa a Bofa ha rinunciato a illustrare la non agevolmente comprensibile impostazione teorica del capo di imputazione, limitandosi ad allertare il Tribunale sui tremendi guasti della finanza "tossica"».
E non è tutto. Allaccusa di aggiotaggio, la linea della Procura ha affidato gran parte delle speranze di risarcimento del popolo dei risparmiatori bidonati. Ebbene, il tribunale fa strame di queste richieste di risarcimento: riconoscendo alle vittime un diritto teorico, ma non fa cifre, stabilendo che vengano fatte caso per caso, verificando le storie di ognuna delle 42mila vittime.
Non sarà facile, e i giudici lo sanno. E probabilmente sanno anche di rischiare limpopolarità quando scrivono che in teoria grazie alle bugie di Tanzi i risparmiatori potrebbero avere anche guadagnato: «Sia gli azionisti che gli obbligazionisti possono avere tratto giovamento dalla diffusione di false notizie, idonee a rafforzare il titolo Parfin alla borsa di Milano».
La rottura, insomma, è consumata. Essa appartiene certamente alla sacrosanta dialettica tra parti processuali. Ma è difficile non coglierne la gravità e lasprezza, non solo nei toni - fa una certa impressione leggere in una sentenza che un capo di imputazione «non ha senso compiuto» - ma nei contenuti.
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