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"La partita che ora voglio vincere è contro il diabete di mio figlio"

Ex calciatore, oggi è commentatore tv. Qualche mese fa la diagnosi per il piccolo Alessandro: "Far conoscere la malattia aiuta a combatterla"

"La partita che ora voglio vincere è contro il diabete di mio figlio"

Un sospiro, una pausa, una risposa. Mai banale. Come quando gestiva il centrocampo del Milan e vinceva, vinceva, vinceva. Oggi Massimo Ambrosini ha trasformato il suo passato di calciatore nel mestiere di opinionista: i suoi commenti su Dazn sono incisivi ma felpati, decisivi ma senza urlare, un po' come faceva in mezzo al campo nel gestire i palloni. E, qualche volta, realizzando i sogni dei tifosi con un gol.

Ma oggi Massimo gioca anche un'altra partita, più difficile, una sfida che non dà certezze di un successo, non ancora almeno: quella della malattia di suo figlio Alessandro. È successo qualche mese fa, qualche segnale preoccupante, gli esami e la diagnosi: diabete di tipo 1, a quasi 3 anni. Un'ingiustizia.

È quello il senso, tra un sospiro e l'altro, tra una frase meditata qualche secondo per non dare mai il senso di incompiutezza. Difficile da accettare, inevitabile reagire. Mai mollare, per nessun motivo. Come quando Ambrosini sognava di diventare un calciatore e stava per essere sconfitto dalle prime difficoltà: «Ero giovane, ero passato dal giocare nelle squadre di Pesaro al Cesena. Al primo anno non ero il più bravo, ero più spesso in panchina che in campo, ero un ragazzo in cerca di certezze che non trovavo. I miei sacrifici non venivano premiati e volevo lasciare. Per fortuna i miei genitori hanno trovato le parole giuste per dissuadermi».

Quando ad Atene, nel 2007, il Milan stava festeggiando la sua settima Coppa dei Campioni, Massimo mostrò una maglietta che aveva scritto sopra from Christ the King to Athens, e il significato era molto prosaico: parlava del piccolo campo di quartiere su cui aveva tirato i primi calci, il Cristo Re appunto. A fine carriera quattro scudetti, due Champions League, un mondiale per Club e un'altra serie di coppe, erano lì a ricordare quanto sia stato quel ragazzo nel calcio. Con, perfino, anche un'esperienza da attore, grazie ad Abatantuono in Eccezzziunale veramente, «ma più che un'esperienza è stata una bella mattinata divertente, per fare un favore a un grande amico come Diego. Neanche una vera parentesi». Ora però c'è la realtà, diversa, del presente. Con le sue ombre e con qualche luce, nonostante tutto.

Cosa è cambiato da quando Ambro era un semplice ragazzo di Pesaro?

«Tutto. Per i giovani d'oggi la situazione è molto diversa: in generale il mondo mette molta più pressione, e l'ansia a tutti i livelli sui bambini è cresciuta in maniera esponenziale. A scuola i ragazzi sono portati a una tendenza prestazionale che non li fa vivere bene».

È un problema generazionale.

«I modelli di successo di oggi rappresentano questo momento che non prevede più un percorso. I ragazzi non concepiscono il sacrificio, e che si possa andare incontro a cadute da cui bisogna rialzarsi. Il successo oggi è tutto e subito, non si accetta il fallimento. Che invece è un passaggio necessario».

Questo condiziona anche il mondo del calcio?

«Certo. E le persone che guardano e giudicano da fuori non capiscono che i calciatori sono persone, che ci sono sentimenti, ed anche limiti, debolezze e frustrazioni che ogni uomo ha. Soprattutto in un mondo come quello che stiamo vivendo. Torniamo al discorso dei ragazzi, alle fragilità per le quali non sono strutturati mentalmente. Il concetto che per forza bisogna performare maschera insicurezze personali».

Anche parlare di calcio è diventato un mestiere difficile.

«Ho la fortuna di lavorare in un'azienda dove il clima è genuino. La linea di Dazn è quella della serietà e della pacatezza, ed io mi ci trovo benissimo. Bisogna essere coerenti con quello che si è: io sono così, e qui c'è la dimostrazione che si può esprimere opinioni in un certo modo».

Anche se i social, a volte, diventano un nemico incontrollabile.

«Pure trovare equilibrio è un percorso. Si cerca un compromesso a cui, chi fa questo lavoro, deve per forza arrivare. Anche se non è semplice. A volte si ricevono giudizi ingiusti e che vanno oltre alla semplice non approvazione: quella fa parte del nostro lavoro, il resto è sbagliato. Però non penso ci sia una soluzione a questo problema: bisogna accettare serenamente che può capitare. Partendo sempre dal presupposto di base, che è quello del rispetto nei confronti del lavoro altrui e dell'emozione della gente».

Eppure certa gente non cambia mai.

«In questa stagione abbiamo visto situazioni in cui intere squadre sono andate sotto la curva a subire rimproveri e insulti. Dobbiamo essere in grado di far capire che ci sono dei limiti che non vanno superati. Quello che ha fatto Claudio Ranieri a Bari, zittendo i suoi tifosi che irridevano gli avversari battuti, è giusto: non si deve mai superare il confine in termini di sfottò e di umiliazione. Da questo punto di vista dobbiamo fare molti passi in avanti: secondo me a livello culturale siamo pronti, eppure è necessario fare qualcosa di più per evitare che certi episodi continuino a ripetersi».

Torniamo al Milan: quando si capisce che, per una squadra, è l'anno giusto?

«Devo dire che io ho avuto poche esperienze di situazioni negative e di stravolgimenti. Di sicuro ci sono stagioni in cui la chimica di squadra permette di avere la consapevolezza della propria forza. Che poi consente la sopportazione dei difetti dei compagni. L'anno nel quale abbiamo vinto lo scudetto con Zaccheroni fu particolare: abbiamo capito le nostre possibilità di trionfare cammin facendo. E, alla fine, ci siamo appunto sopportati. Tra virgolette s'intende».

Lo scudetto vinto da Pioli l'anno scorso è sembrata quasi una storia simile.

«In realtà penso sia stato un Milan un po' diverso. In questo caso ho percepito una squadra di talento che ha utilizzato tutto quello che aveva. E che è stata grandiosa nel rimanere attaccata alle sue certezze nei periodi decisivi del campionato. Ho visto tanta unità, che ha prodotto un risultato eccezionale».

Capitolo allenatori: che mestiere è, oggi?

«Il calcio è cambiato rispetto agli ultimi anni della mia carriera. Adesso un calciatore moderno ha bisogno di più conoscenza e un allenatore deve fornire in modo corretto più informazioni possibili. A un giocatore si richiede di coprire più situazioni all'interno della stessa partita, e deve essere capace in autonomia di prendere decisioni avendo più armi possibili a disposizione. Ci vuole tanto coraggio, e un allenatore che sa insegnare nel modo corretto poi può pretendere che un giocatore usi le armi che gli ha dato».

In questa materia Ancelotti è un numero uno.

«Carlo fa parte di una generazione diversa di tecnici, che a differenza di quelli arrivati dopo di lui ha dovuto aggiornarsi per stare al passo. Ha usato personalità e intelligenza, e i risultati si sono visti. Ha saputo rimanere con le sue convinzioni umane, aumentando le sue conoscenze calcistiche e tecniche».

E Guardiola?

«Lui vive di ossessione, che lega tutto il suo lavoro e porta all'eccellenza. Ha incanalato la sua ossessione per far giocare al massimo livello estetico le sue squadre. Ha cercato, studiato, provato, trovato soluzioni, sempre con l'obbiettivo di avere un dominio del gioco. La sua modalità didattica lo ha portato a scegliere sempre soluzioni nuove e a darle ai giocatori. Provandone, a volte, direttamente sul campo».

Parliamo di famiglia. Di tua moglie Paola. Colpo di fulmine?

«In realtà c'eravamo già incrociati in un paio di situazioni, quando ancora eravamo entrambi impegnati. Io però ricordo nitidamente la prima volta che l'ho vista e quel brivido che ti fa capire di essere davanti a qualcosa di diverso rispetto al resto. Poi ci siamo rivisti più avanti ed è successo».

Un legame forte che in questo periodo è, forse, una salvezza.

«I momenti di difficoltà si superano grazie a rapporti come il nostro. Non c'è un manuale e nessuno ti spiega prima come affrontare la malattia di un figlio: per forza di cosa devi aiutarti vicendevolmente. Un'esperienza come quella che stiamo vivendo impone un crollo e una risalita obbligatoria. Devi avere la fortuna che questo percorso non combaci, perché poi devi essere capace di tirare fuori qualcosa di più che magari non hai. Le unioni come la nostra aiutano ad aggrapparsi alle difficoltà della vita».

Alessandro soffre di qualcosa sui cui in molti equivocano. Francesca Ulivi della Fondazione Italia Diabete dice che forse bisognerebbe cambiare il nome, perché molti pensano che avere il diabete di tipo 1 sia colpa di una vita esagerata e non del fatto che sia una malattia autoimmune.

«Non so se cambiarle il nome servirebbe, ma alla base di sicuro c'è una mancata conoscenza. E lo dice uno che è entrato in ospedale con suo figlio e non aveva ben chiaro cosa sarebbe successo. In quel momento andavo istruito anch'io. Il fatto è che si tratta di una problematica che, non si sa perché, sta aumentando. E una conoscenza più diffusa aiuterebbe le famiglie e le persone a risolvere i dubbi sui sintomi e non tardare poi a correre ai ripari».

La prevenzione, insomma, può evitare guai peggiori.

«I rischi di una diagnosi ritardata sono grandissimi: il problema principale è evitare che i propri figli arrivino in ospedale in condizione già critiche. Poi, è vero, la non conoscenza dei motivi che portano a una malattia del genere porta anche a dei problemi nella raccolta fondi».

La solidarietà nei vostri confronti è stata eccezionale.

«È vero, siamo stati subito circondati da gente speciale che si è resa disponibile, anche soltanto con un messaggio. E quando poi con la Fondazione, abbiamo organizzato una maratona per la ricerca, abbiamo avuto un grande risultato numerico ed economico. Penso sia bello, utile e nobile voler partecipare nell'aiutare qualcuno che soffre. È stato commovente».

Come sta Alessandro? Ora ha compiuto 3 anni.

«La vita di mio figlio? Come posso definirla... Siamo fortunati che viviamo in un'era tecnologica che permette a un malato di diabete di andare avanti senza privarsi di troppe cose. Ma è una vita diversa, in cui devi avere un'attenzione diversa sull'alimentazione, e hai meno libertà. Ma grazie alla tecnologia almeno si può avere una percezione di poter vivere una quotidianità che altre malattie purtroppo non consentono».

Che speranze avete? Qual è il futuro davanti a voi?

«Quello di poter arrivare ad avere una cura per nostro figlio e per chi è nelle sue stesse condizioni. Siamo entrati in contatto con il dottor Lorenzo Piemonti del San Raffaele di Milano, un'eccellenza del nostro Paese, e siamo positivi nel pensare che un giorno si riuscirà ad arrivare a una soluzione. Si parla di anni, ma dobbiamo essere consapevoli, da italiani, di avere appunto delle eccellenze su cui contare».

Angelica e Federico, gli altri vostri due figli, come hanno reagito?

«Sono protettivi con Alessandro: hanno un'età che ha consentito loro di sapere tutto e di capire. Noi abbiamo spiegato la situazione, ma c'è comunque da gestire un senso di ingiustizia che continuano ad avere nei confronti del loro fratello».

Come si fa?

«La gestione di questo sentimento è un percorso che a livello personale ognuno di noi deve fare per forza. E non è detto che il traguardo sia quello dell'accettazione. Che tu sia un parente, un genitore o, appunto, un fratello o una sorella».

Ci riuscirete?

«Angelica e Federico sono bravissimi con Alessandro, però nei loro occhi si legge un po' di malinconia e quella sensazione di sbagliato. È umano e comprensibile.

Ma non so se possa mai avere una fine».

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