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Pasodoble, un tango nel buio

Pasodoble mi chiamavano, quando ero chierichetto, perché piroettavo di fronte all’altare inseguendo una musica che la Beata Vergine di Loroddai suonava solo per me. «Tàn taradàn taradàn tàn tàn». Nervi e ostie, elettricità e incenso che mi frustavano le interiora. Gli altri se la ridevano, mi compativano. Qualcuno, in cuor suo, mi dava per gaddighinosu, mi gridava alle spalle macconazzu. «Sei matto come un cavallo!» ringhiava Juvanneddu Dulle-Dulle, il capraro, quando scontravamo gli sguardi ancora cisposi ass’impuddile, all’uscita della prima messa. Prendevo la mitra a una punta di don Cirasa, m’infilavo un garofano rosso in bocca e battevo i tacchi simulando una littorina in arrivo. Dovevo nascere a Toledo o a Siviglia io, e ancora meglio sarei stato in Argentina, ma il destino mi ha sbattuto qui a Ispinarva come un gatto d’avanzo schizzato sul muro.
«Tàn taradàn taradàn tàn tàn». Questa era la colonna sonora della mia infanzia. L’allegria spensierata della fisarmonica di tziu Viascone, dalla prima volta che l’avevo sentita miagolare a un matrimonio, mi era entrata in circolo nel sangue come un bicchiere di vino liquoroso. Paso doble e tango, le due facce del disco graffiato della mia esistenza. La casa dove sono nato, nel vicinato di Sa Puddina, è dirimpettaia alla chiesa majore, quella di Su Redentore. La mia finestra, due strade sopra la via principale, si apriva sul verderame del cupolone che sembrava l’uovo di bronzo di una gallina gigante.
Pasodoble l’ho ucciso a dieci anni quando ho iniziato a frequentare i frati di San Giovanni e, da allora, a Ispinarva mi chiamano Paolo il Frate. Paolo è il mio nome di scapolo e di vergine, che così sono sempre stato nella vita, perché non mi sono mai sposato né con donne né con Dio, anche se sono un mincigrosso di natura. Di cognome vero faccio Zumpeddu, che mi sta anche bene, perché da noi significa piccolo tronco, sgabellino, e io di statura faccio uno e cinquanta. Mio padre, da quando se lo era messo sotto un trattore, era diventato sacrestano e campanaro. Di quei pochi soldi vivevamo, con l’aggiunta di una misera pensione che non bastava neanche a comprare il granoturco per il maiale.
Se non fosse stato per don Ilariu la mia vita sarebbe finita già da tanto, non avrebbe avuto questa lunga coda a Sa Domo de Sos Vezzeddos. Una cartuccia o un metro di fune a Ispinarva si trovano in ogni gàrgara. Don Ilariu mi ha sempre tirato fuori dalle disgrazie.
Quando ho perso la vista mi ha messo a disposizione questa stanza al piano terra nella casa di riposo di Monte Muzzu. Con il bastone di olivastro e questo cane che mangia dal mio stesso piatto mi sembra ancora di avere gli occhi. Metto cento volte al giorno la retromarcia dei ricordi e, nel telo nero della memoria, vedo quello che mi pare. Chissà se nostro Signore, cavandomi gli occhi prima del tempo, non abbia voluto farmi la grazia di risparmiarmi lo sguardo della morte. Dicono tutti che noi ciechi abbiamo gli altri sensi più affinati, in particolare il tatto e l’udito. Quando arriverà la morte la riconoscerò certo dal rumore, dalla forma delle corna di Su Bundu, dal suo pelume puzzolente e riccioloso.
Io non sono nato cieco, lo sono diventato da grande dopo aver visto tutto quello che c’era da vedere e capire. Il perché e il percome ve lo spiegherò più avanti. Da bambino ero felice di vivere, ubriaco della ricchezza che dava la povertà, goloso dei frutti rossi del giuggiolo e di prunischedda. «Su zinzaru» della corte di tzia Thilippedda sapeva di cardo pisciareddu e miele di corbezzolo. Andavo a scuola con le tasche piene di ballaroddas e la cartella gonfia come una savada, piena di fili di ferro e pezzi di rame; quaderni sporchi e pennini svirgolati; bottigliette vuote e coltelli smarrati. Crastathilipirches li chiamavamo quei coltellini, perché erano innocui e non castravano neanche le cavallette. Quelli un po’ più grandi le leppe ce le avevano vere, col manico di corno di muflone color nero pece o rosa ambrato. Le mostravano e le usavano per minacciare o farsi la punta alle spade d’asfodelo, che nei duelli si rompevano all’improvviso croccando come i sogni sul cuscino prima dell’alba. «Tricchili, traccala, tricculi». Le spade s’incrociavano in duelli che avevano per posta quattro fave o una pelle di colubro. Io mi fermavo incantato a guardare gli spadaccini improvvisati, protagonisti di libri mai letti, attori di vite prese in prestito dal passato.
Nel vicinato di Sa Puddina se c’era qualcuno da picchiare quello ero sempre io. Dal giorno che non avevo reagito a uno sputo di Pibirieddu, il figlio di un rimitano del paese che non aveva acqua in brocca, tutti si sentirono autorizzati a darmi calci e pugni, così, solo per il gusto liberatorio di darli, per misurare la loro forza asinina. Mama mea mi aveva insegnato a rispettare il prossimo e porgere l’altra guancia, a non rispondere alla violenza con la violenza. «Il vero signore, il vero balente è quello che ha più forza d’animo e tiene a fune corta il cane che ha dentro. Ricordatelo sempre Paulè!». Così diceva mama Redenta mentre io crescevo pieno di lividi e umiliato da insulti che non voglio neanche ricordare per non profanare questo sacro ricovero.
Quando nel comodino di uno zio minatore, tra libri di esoterismo e scatole di detonanti, trovai quella rivista sui balli la mia vita cambiò all’improvviso. «Il tango in venti lezioni - Pasodoble per tutti». L’autore era anonimo e le pagine corredate di disegni in bianco e nero che illustravano i passi e le mosse. Mama Redenta, che temeva per la mia salute mentale, si preoccupò e mi portò dal dottore, perché per lei quel ballare nella mia stanza con ballerine invisibili era una malattia da curare subito. Le mie compagne di ballo le chiamavo per nome come fossero vive, le stringevo fino a farle soffocare. Se prendevano un dito di lardo nei fianchi le sgridavo e le mettevo a digiuno; se smagrivano fino a farsi spezzare le reni nelle giravolte o nelle piegate le mettevo all’ingrasso e non ci ballavo per una settimana. Così s’imparavano Magdalena, Demetra, Natalia, Eufemia... Ohi che giramento di testa, non ho mai avuto tante donne in vita mia come allora.
Ero il maestro di tango e passo doppio che si era inventato qualcosa per vivere. Maestro e apprendista di un’arte che quasi tutti, a parte tziu Viascone, deridevano perché ignoravano. Eppure la malinconia sussurrata del tango ha in comune con la nostra terra una visione disperata e cieca della vita. Proprio così: cieca. Adesso posso dirlo con certezza. I compagni del vicinato di Sa Puddina dopo qualche tempo smisero d’insultarmi e di darmele, non ci prendevano più gusto a sminuirsi con un chierichetto che si parlava da solo e ballava il tango come un gagà. Quelli di Sas Tres Camineras, invece, avevano preso a divertirsi della mia eccentricità e mi invitavano anche a bere le uova fresche che rubavano dal pollaio all’aperto di tzia Neredda Pistule. Le bucavamo con una spina di prugnolo da parte a parte e, con fischi da risucchio, ne aspiravamo anche una dozzina a testa.
Uno di Sas Tres Camineras una sera mi prestò un libro d’avventure e mi disse di leggerlo attentamente perché, secondo lui, il protagonista aveva molte cose in comune con noi ragazzi d’Ispinarva. Angheleddu Murghecrapas era figlio del capraro del paese, pastorello autodidatta con cinque anni più di me, un profilo di anguria spaccata in due e i lineamenti tirati in un sorriso da aspirante suicida che non perdeva neanche nel sonno. Il libro che m’imprestò raccontava la storia di un naufrago. Dopo la prima lettura impiegai molto tempo per capire cosa avesse da spartire un uomo di mare con un figlio delle pietre roventi di Ispinarva quale ero io. Per molte notti lo strinsi al petto, lo sognai piccola barca di carta che mi guidava ubriaco di sogni tra le onde. Più lo leggevo più mi piaceva e, alla fine, mi convinsi quasi di averlo scritto io.
La lettura diventò la mia dolce malattia, dimenticai tango e paso doble e iniziai a prendere libri dalla biblioteca comunale e da quella della parrocchia. In quel periodo avevano dato l’asfalto alla strada principale, la mia vita sapeva di carta, cera, incenso e catrame. Tra le pagine dei libri incontravo le risate che mannoi Serapu aveva regalato alla mia infanzia, l’agonia di mannai che rantolava sopra una banitta prudicata dall’urina. Mannai Larenta se n’era andata ronfando come un gatto che tarda a morire, venti giorni stesa a pancia insù con le mani già incrociate in preghiera fino a tornare pelle e osso. «Thrùù... thrùù... thrùù... thrùù...». Quel ronfare cadenzato segnò per sempre il ritmo della mia esistenza.
Mannoi Serapu mi aveva insegnato che ogni minuto della vita è un morso del tempo, solo l’ultimo è una scorriolata di denti che ti porta via. «Tutti mordono, l’ultimo ti porta via: gnamm!». Lo diceva raspando i monconi dei denti consumati e mostrando i segni che tarli invisibili gli avevano scavato nella carne come piccole stramature di fiumi fangosi. Smisi di andare a scuola e mi diedi malato, ostinato a leggere e non a vivere.
Siccome non mi credeva nessuno, un mattino che mi portarono dal vescovo, dissi di aver incontrato la Madonna tra le garighe di Sos Carchinazzos, oltre la collina di fuochi fatui che la notte illuminano a intermittenza le punte di Isculacaca e Milovè. Don Cirasa diceva che Su Bundu si era impossessato di me, che dalle nostre parti non si era mai visto un ragazzo bruciare il suo tempo sopra i libri. «Era meglio se continuavi a dilliriare per il tango e il paso doble!». Secondo lui avevo solo paura di vivere perché ero nato nel posto sbagliato. Alla mia età, infatti, a Ispinarva s’imparava a mungere, correre a cavallo, giocare alla morra e lottare a s’istrumpa. Tutte imprese che non mi piacevano né mi riuscivano. Ero abituato a chiedermi il perché delle cose e quelle le trovavo inutili. Che senso aveva misurarsi in prove belluine dove contavano solo l’abilità e la forza? Nella lotta a s’istrumpa la pelle dei lottatori scintillava di un sudore antico. Alla fine del combattimento, anche se il vincitore e il vinto si davano la mano, rimaneva un velo di rancore negli occhi, un odio da maturare nel tempo che sarebbe poi scoppiato come un bubbone.
L’unico che mi ha veramente capito da subito è don Ilariu. Quando alla messa delle cresime salii sull’altare e rovesciai i ceri per terra urlando «Cristo non ha bisogno di soldati! A nostro Signore i soldati lo hanno torturato e ucciso!», lui si avvicinò e mi prese a bimboi in disparte per dirmi: «Hai ragione Paulè, ma adesso calmati, torna al tuo banco e preparati per la comunione!». Tzia Gagliedda, che era seduta in quarta fila, si strappò dal petto la croce d’oro della catenina e me la puntò addosso minacciandomi: «Pristu Su Bundu! Pristu innedda, lontano dalla casa del Signore!». Più tardi, a don Ilariu lo dissi chiaramente che la Madonna non l’avevo mai vista, che era un’invenzione per farmi credere matto. «Io voglio solo leggere don Ilà e, piuttosto che finire pastore o manovale, sono disposto anche a impiccarmi. Se non mi accontentano mi appendo alla testa dell’angelo che pencola dal baldacchino per le prediche: cumpresu?». Lui parlò con i frati di San Giovanni e mi trovò un posto nel convento.
Da allora mi ha sempre procurato i libri che cercavo e garantito il pane che non ho voluto lavorarmi con le mani. Per mio padre Barore Zumpeddu sono stato una disgrazia fin dalla nascita. È arrivato in punto di morte ripetendosi che sarebbe stato meglio crepare tra i cingoli di quel trattore che lo aveva buttato a terra nella collina di Sos Trastos Perdios. Prima di chiudere gli occhi per sempre non mi ha voluto neanche salutare. «Di sacrestano in casa ne bastava uno!». Queste sono le ultime parole che disse a mia madre.
Io non sono un sacrestano. A modo mio sono un filosofo, uno che ha sacrificato la propria vita per vivere quella degli altri nelle pagine dei libri. Nel convento dei frati sono invecchiato in fretta perché lì si masticava tempo perduto e il nuovo che doveva arrivare era già morto prima di nascere. Tutto sapeva di foglie di timo e corno bruciato là dentro. L’unica cosa che si salva, anche qui a Monte Muzzu, sono le parole dette e scritte che il sole incandescente vetrifica per l’eternità: credere o non credere. Quelle parole che adesso mi porta il vento e non vedo più da quando mi svegliai convinto che fosse ancora notte e invece era notte solo per me. Per me che guardando la luna tisica che mieteva con la sua falce le tanche di Malepaschiu avevo deciso, a dieci anni, di campare di parole. Per me che non avevo fatto i conti con quel Signore che sta lassù e ha in mano l’interruttore dell’universo.
«Cecità fulminante di origine misteriosa!». Così sentenziarono gli specialisti. Don Ilariu mi ha regalato il cane e il bastone e, da quando sono cieco, i suoi occhi sono i miei. Per mettere le ali alla disperazione, ogni giorno mi legge volentieri qualche pagina della Guerra della fine del mondo o di Macunaíma. Mi confessa senza ostia ogni mattina e la notte passa di fronte alla mia porta per ascoltare il silenzio di un senza Dio, di uno che ha scelto di vivere lontano dal rumore dei vivi. Anche da cieco mi sembra di vedergli le rughe della fronte che disegnano un colombaccio che prende il volo.
Se davvero Dio esiste, come lui dice, saprà quante volte mi ha fatto sanguinare dentro dal dolore. Io Dio lo immagino con il naso da astore, le labbra d’ossidiana e gli occhi di bronzo lucente. Credo che sia cattivo e maligno, altrimenti non mi avrebbe tolto la vista ma il respiro. Don Ilariu, per non offendermi, non mi da più la buonanotte dicendo «Sogni d’oro fratello». Mi dice solo: «Riposa, figliolo, che domani è un altro giorno». Io dal giorno della cecità non ho più riposato, vivo la veglia come il sonno in un ambulare che sa di morte anticipata. Tocco col bastone i vetri della finestra e immagino le piccole volute di fumo arricciato che salgono da Ispinarva verso il cielo, accompagnate dalla musica di un organetto che suona un paso doble barbaricino e malinconico. In quei momenti sento che il maestrale fa trillare le foglie argentate dei pioppi di Sos Trazzaos che battono il tempo come uno sciame di nacchere volanti.
«Tàn taradàn taradàn tàn tàn». Piangendo infilo in bocca un garofano selvatico e batto i tacchi simulando una littorina in arrivo.

«Tàn taradàn taradàn tàn tàn».

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