Ha passato Natale nello squallore delle sterparglie suburbane, passerà Pasqua nella cella frigorifera di un obitorio. Se gli ultimi minuti di vita della povera Yara si sono rivelati disumani, non sono molto più lievi i giorni e le settimane subito dopo la morte. Da quel tetro e nebbioso 26 novembre della sua sparizione, la piccola non ha pace. Per tre mesi è rimasta sperduta tra i capannoni di Chignolo dIsola. Poi, dal 26 febbraio, giorno del ritrovamento, è «oggetto» dindagine scientifica a disposizione dellautorità inquirente. Autopsia, prelievi, confronti biologici. I tempi lunghi sono diventati lunghissimi, eterni, insopportabili.
Il risultato è molto pesante: a cinque mesi dalla scomparsa, la famiglia ancora non può piangerla in un funerale e sistemarla per sempre nella quiete di una tomba. Queste sono le ore della Passione: non serve una grande sensibilità per intuire quanto dura sia la prova sopportata dalla mamma, dal papà, dai fratellini. Con una prospettiva per niente incoraggiante: il tormento non appare prossimo a concludersi. Dopo Natale, passerà anche la Pasqua. Non c'è mai requie per casa Gambirasio. Non è concessa.
Con evidente imbarazzo, la piemme Letizia Ruggeri ha più volte ascoltato le accorate richieste dei genitori. Ma la risposta è sempre la stessa, fredda e inflessibile, a termini di legge: «Dal 26 febbraio ho concesso novanta giorni all'anatomopatologa Cristina Cattaneo, che lavora sui resti di Yara, per una relazione completa sullo stato del corpo e su tutto quanto è possibile sapere di utile. Temo che quei novanta giorni saranno utilizzati tutti (se ne riparlerebbe a giugno, nella migliore delle ipotesi: n.d.r.). Capisco lo strazio della famiglia, lo tengo ben presente, vorrei solo dire che questa circostanza spiacevole fa soffrire anche me
».
Tutta una comunità sta soffrendo, tra pietà e compassione. L'idea di quella madre che ogni giorno, ogni ora, ogni minuto si sorbisce il tormento della sua creatura abbandonata nei gelidi androni di un obitorio, senza possibilità di accarezzarla e di piangerla, senza una data certa per benedirla e sistemarla vicino a casa, dov'è nata e cresciuta, dove portarle fiori e mute parole d'amore, questa idea di madre affranta e vinta lascia tutti quanti nello sgomento. Si avverte forte l'esigenza umana di ricomporre questa storia feroce, di scrivere una fine, se non ancora con un colpevole castigato - chissà quando, chissà come lo troveranno - almeno con una pietra tombale, che restituisca dignità al ricordo di Yara. Da cinque mesi la piccola martire non sa più cos'è, la dignità.
Certo la giustizia fa valere le sue superiori esigenze d'indagine. Ci sono sicuramente valide ragioni ed estreme necessità - così almeno si spera - per infliggere a Yara l'interminabile supplemento di pena. Ma alla gente di Brembate tutto questo comincia a suonare come inutile accanimento. Risultati concreti nell'inchiesta non se ne vedono. Si vede soltanto una famiglia che conta ore e minuti pesanti come secoli.
Ha senso tutto questo? Esistono davvero valide ragioni ed estreme necessità, nella logica investigativa, tanto importanti da tenere ancora Yara lontana da casa? Davvero sono così importanti, così insormontabili, da giustificare tutto questo dolore? Forse è giusto che la legge pensi soltanto a far bene il proprio mestiere. Forse. Ma ci sono momenti e situazioni che dovrebbero privilegiare l'umanità. Al punto in cui siamo arrivati, non c'è più niente che possa superare in rispetto e considerazione la sofferenza di mamma Maura.
Signori della giustizia, vedete di stringere, almeno una volta nella vita. Fate presto, cercate di chiudere.
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