Paul Simon: "Le ballate sono l'antidoto all’iPod"

Disco e tournée per il cantautore che riscopre le origini: "Il futuro? Prevedo la fine dei file musicali e il ritorno degli album". E delle nuove canzoni dice: "Non mi interessa vendere ma avere stile"

Paul Simon: "Le ballate 
sono l'antidoto all’iPod"

«Non c’è peggior sciocco di un vecchio sciocco. Oggi avrei molte più colpe, rispetto a quand’ero giovane, se cantassi qualcosa di stupido». Così parlò Paul Simon, poeta laureato in musica, cinque anni fa all’uscita dell’album Surprise. E se la sorpresa allora era il viaggio nell’elettronica, oggi è ancor più sorprendente la delicata introspezione urbana del nuovo So Beautiful or So What, ritorno alle ballate delle radici dopo tanto peregrinare tra culture etniche e poesia che parte dalla parola per rifugiarsi nei suoni e nei ritmi.

Insomma un disco di splendide ballate, quasi a riprendersi lo scettro del “vecchio” cantautore.
«Dai tempi di Graceland ho scritto canzoni partendo dai ritmi dei tamburi e della batteria. Ora torno alle radici; sono entrato in studio da solo, con la chitarra come unico stimolo, per ritornare alle armonie complicate di brani come Still Crazy After All These Years».

Nel mondo dell’iPod e del singolo lei torna al disco classico. C’è ancora un pubblico che ha la pazienza di ascoltare un bell’album per intero?
«Non m’interessa vendere una canzone. Continuo nella tradizione di album come Bridge Over Troubled Water o Sgt. Pepper’s dei Beatles. I ragazzi mettono sull’iPod i brani più diversi, da Hank Williams a Frank Zappa, seguendo un loro filo conduttore, ma l’album è una forma d’arte, e sta all’artista renderlo vivace con cambi di ritmi, di strumenti, di voci».

Controcorrente o nostalgico?
«Coerente. L’importante è lo stile, non scrivere un successo a tutti i costi. Sono convinto che il disco tornerà ad essere centrale nel rock, ci sono artisti giovani che pubblicano album molto interessanti come gli OutKast, Kanye West o in un passato recente i Public Enemy. Addirittura ci sono band indipendenti come i Grizzly Bear che rifanno i miei brani».

Anche lei è indipendente, ora che ha lasciato la Warner dopo trent’anni...
«Ho autofinanziato le session e ho fatto un ottimo accordo con la Concord che è distribuita dalla Universal. Punto molto sulla tournée mondiale per ritrovare il mio pubblico. Il 17 luglio terrò l’unico concerto italiano all’Arena di Milano».

Un pubblico che si aspetterà anche i suoi superclassici.
«Il tour americano parte la prossima settimana. Non ho intenzione di fare un Greatest Hits. Canterò brani meno noti, tratti da Hearts & Bones e Rhythm of the Saints e pezzi come Mother and Child Reunion che non eseguo da secoli. Però stavolta poca nostalgia, non suonerò Mrs. Robinson, Graceland, The Boxer, Me and Julio Down by the Schoolyard».

Si parla anche di qualche concerto estivo con Garfunkel.
«Stavamo organizzando ma lui è finito all’ospedale. Ha grossi problemi ad una corda vocale. Non riesce a cantare nei toni medi e non sappiamo quando potrà risolvere questo problema. Io sono sempre pronto: ci terrei a fare un ultimo spettacolo con lui. Stavolta, dopo tanti ritorni, sarebbe davvero l’ultimo».

Quindi è vero o è una leggenda che siete nemici per la pelle?
«Nessuno ha litigato tanto come noi. Ma abbiamo anche tanti ricordi. Un concerto è comunque un evento».

Tra pochi mesi avrà 70 anni. I suoi testi sono sempre interessanti e parlano del futuro, dell’amore, di speranza: sente il problema del tempo che passa?
«Ho ancora tre figli giovani e uno che fa il cantautore, non mi sento vecchio e sto bene fisicamente. Un giorno arriverà il momento di fare i conti, nel frattempo curo la voce non fumando, non bevendo alcol o caffè. E non vado mai a divertirmi».

Una vita da asceta, infatti canzoni come Love and Hard Times parlano di spiritualità.
«Non sono religioso, ma sento che c’è una forza che dà senso alla vita e all’universo, anche se non capisco da dove venga».

Ha scritto Questions fot the Angels dedicata ai senzatetto; Rewrite su un veterano del Vietnam; la riflessiva So Beautiful or So What in cui parla dell’omicidio di Luther King. Però dice di non lanciare messaggi.
«Racconto storie e sensazioni, ma quando scrivo non parto mai da un concetto precostituito. Le frasi nascono spontaneamente e il soggetto viene fuori pian piano. Sono un narratore e alla fine canto storie che mi rappresentano».

Getting Ready parla di suo nipote che ha combattuto in Irak.
«Ora è tornato e mi ha raccontato cose incredibili.

La guerra è inconcepibile; ha distrutto centinaia di famiglie americane e irakene, sono stati spesi milioni di dollari. Allora era più economico offrire soldi a Saddam per andarsene. A parte gli scherzi la cosa più triste è che si combatta non per un ideale ma per denaro e potere».

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