RomaOrdine, compagni: l’ex Dc Enzo Carra, oggi (con qualche scetticismo) nel Pd, chiede al neo-segretario Bersani di rimettere in riga il suo partito, «se ci riesce». E si domanda: «Ma che succede nel Pd?», facendo l’elenco dei detti e contraddetti di questi giorni: su Berlusconi e il dopo-Berlusconi; sul difendersi «nei» o «dai» processi; sull’andare in piazza o no; sulle riforme da fare o da non fare. Pure su Fini: Enrico Letta ieri ha dovuto spiegare che no, è «sbagliato» pensare che il presidente della Camera possa diventare un compagno di strada del Pd: «Non condivido la logica per cui Fini sarebbe un possibile interlocutore futuro del centrosinistra, non è così».
A Letta è toccato pure tornare a difendersi dall’ondata di polemiche che gli si è scatenata contro dall’interno del suo partito e dai mondi circostanti: ieri ha incassato l’anatema del «Fatto» di Padellaro e Travaglio e quello del pm Spataro. È bastato che il vicesegretario del Pd riconoscesse una cosa ovvia (che un imputato, e persino Berlusconi, ha il diritto di difendersi come crede) per scatenare un uragano nel Pd. Non solo da parte degli avversari congressuali di Bersani, ma dalla sua stessa maggioranza: ieri è scesa in pista anche la presidente del Pd Rosy Bindi, per bocciare il vicesegretario definendolo gentilmente «confuso». Il tutto mentre torna a farsi sentire anche Walter Veltroni, per benedire il «No-B day» che è «la società civile che si muove», e per definire «esitazioni incomprensibili» quelle del segretario, che rifiuta di aderire alla manifestazione indetta da Di Pietro. Veltroni però non potrà esserci, perché proprio quel giorno ha un matrimonio e pure una nuova presentazione del suo libro: i potenziali lettori, si sa, sono società civile anche loro. E poi - dice - perché «non mi piace la sfilata dei politici davanti alle tv».
A ruota segue Dario Franceschini (che del Pd è capogruppo), per far sapere che invece lui in quella piazza «bella perché spontanea» ci sarà. Si moltiplicano gli annunci dei manifestanti, in implicito dissenso con Bersani. Come Giovanna Melandri, secondo la quale la manifestazione ha un piglio «talmente originale e innovativo» (in effetti un’iniziativa di piazza contro Berlusconi non si vedeva da un quindicennio) che il «popolo Pd» non può non partecipare. La stessa Bindi sospira: «Se non fossi presidente del Pd ci andrei». Come dire: se non dovessi difendere, per dovere d’ufficio, una linea che non condivido, sarei con Tonino.
Nelle caute mosse di Bersani e Letta per sganciarsi dal giustizialismo più becero rientra anche l’interesse ad evitare un muro contro muro che rischi di precipitare verso elezioni anticipate, per le quali il Pd non è pronto. Basta vedere i problemi che ha già con le Regionali: la spaccatura sui No Tav in Piemonte, il braccio di ferro in Puglia con Vendola, che non vuole saperne di farsi da parte, come gli chiede D’Alema. E che trova il sostegno di mezzo Pd.
Ma, come avvertiva l’altro giorno Marco Follini, strappare il «cordone ombelicale» che lega il Pd alla magistratura e al giustizialismo è doloroso, e pericoloso.
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