Un Pd al rimorchio della Cgil può portarci solo al disastro Grecia

Il partito di Bersani rincorre il sindacato e cavalca la protesta per far cadere il governo. Il modo migliore per creare instabilità e danneggiare il Paese

Un Pd al rimorchio  
della Cgil può portarci  
solo al disastro Grecia

Arriveranno domani, sotto forma di emendamenti presentati alla commissione Bilancio del Senato, le controproposte del Pd sulla manovra economica. Bersani, curiosamente, non sembra aver fretta. Alla vigilia di Ferragosto aveva anticipato i 7 punti su cui il Pd avrebbe articolato la sua contro-manovra: ma i dettagli restano tuttora sconosciuti. E soprattutto non è chiaro che cosa succederà in Parlamento: ma sono davvero pochi quelli che scommettono su un bis della manovra di luglio, che finì approvata in un batter d'occhio fra gli applausi del Quirinale.

Questa volta il Pd darà battaglia: più per tattica che per convinzione profonda, e a costo di sacrificare quel poco di profilo riformista che ancora gli resta. Le proposte del Pd, a grandi linee, dovrebbero chiedere l'eliminazione del «contributo di solidarietà» e dei tagli agli enti locali, un nuovo prelievo sui capitali rientrati in Italia con lo «scudo fiscale», una rinnovata lotta all'evasione, il dimezzamento del numero dei parlamentari, una qualche forma di patrimoniale, nonché alcune misure per la crescita basate, almeno in parte, sulle liberalizzazioni.

Alcune proposte sono ragionevoli, altre (come la tassazione dei capitali «scudati») di dubbia costituzionalità, altre ancora, come la lotta all'evasione, apparentemente sacrosante ma, in realtà, blandamente ipocrite nel fingere che non ci sia rapporto fra l'enormità dell'evasione e l'enormità del carico fiscale. In altre parole, la manovra del Pd - proprio come quella del governo, il che è soltanto in apparenza paradossale - è una lista della spesa più o meno raffazzonata, un'accozzaglia di misure in parte contraddittorie, e insomma l'ennesimo tentativo di continuare a galleggiare rinviando le scelte di fondo, dolorose perché necessarie e reali.
Ma se è così - se le proposte del Pd sono un brodino raccogliticcio che deve più alla propaganda che al riformismo - il motivo è squisitamente politico.

La Cgil ha promesso lo sciopero generale perché vuole riprendere il controllo sulla Fiom, che a sua volta ha già annunciato manifestazioni in tutte le piazze alla riapertura del Parlamento; il Pd rincorre la Cgil per non essere emarginato da Vendola e da Di Pietro, che cavalcano populisticamente il malcontento popolare per trarne vantaggio: il risultato è uno schiacciamento dell'intero centrosinistra sulla sinistra estrema, con conseguenze ancora tutte da valutare.
A metà degli anni Settanta, con un'inflazione a due cifre e una svalutazione galoppante, Enrico Berlinguer inventò una formula destinata ad un certo successo: «Austerità occasione per trasformare l'Italia». I sacrifici imposti dalla crisi, sosteneva il segretario del Pci, possono e devono essere lo strumento per costruire un'Italia migliore, cioè socialmente più giusta. Giusta o sbagliata che fosse, la visione di Berlinguer conteneva una lezione politica essenziale: la crisi può essere un'occasione per le grandi riforme.

Il Pd di oggi, che pure venera l'icona berlingueriana ben al di là dei suoi meriti, sembra aver completamente smarrito il senso di quell'intuizione, e anzi è tentato dal rovesciarla. La crisi non è più un'occasione per trasformare il Paese con un coerente progetto riformista, per esempio proponendo una radicale riforma del Welfare e del mercato del lavoro e sfidando su questo terreno la maggioranza di centrodestra, ma è l'occasione migliore per cacciare Berlusconi e il suo governo, indicato più volte, con una certa superficialità, come l'ostacolo principale alla credibilità dell'Italia sui mercati.
È invece l'Italia l'ostacolo principale, e anzi unico, alla propria credibilità: l'Italia ingessata dai privilegi e dalla corporazioni, delle inefficienze e degli sprechi, delle rivoluzioni sempre annunciate e delle riforme subito tradite. Bersani lo sa benissimo quando interviene ad un convegno o a un talk show, meno quando guida il suo partito. Ma così rischia grosso: forse non per sé, e non subito, ma di certo per il Paese.

È bene essere chiari su questo punto: se il Pd imbocca la strada dello scontro, giocando in Parlamento sulle divisioni della maggioranza per far cadere il governo e cavalcando nelle piazze la protesta della Cgil e di tutti gli arrabbiati che aspettano di tornare dalle vacanze per riprendere a indignarsi, l'Italia rischia

seriamente di finire come la Grecia. Per il partito che, giustamente, si vanta di aver portato il nostro sgangherato Paese nell'euro, contribuire alla sua fuoriuscita per indegnità non è certo una prospettiva incoraggiante.

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