Si può sempre fare di meglio, lo sappiamo. Il Creatore in sei giorni ha montato l'universo, talmente bene e talmente in fretta da concedersi persino un giorno di riposo alla fine del maestoso bricolage. Ma a Berlusconi, che pure non ha mai nascosto di considerarsi soltanto un gradino sotto, nemmeno il più carogna degli avversari potrebbe onestamente chiedere di meglio. Cinque mesi dopo il terremoto criminale, le prime case sono pronte. Case vere, come si compiace di specificare il premier, non baracche e container. Oggettivamente un enorme salto di qualità per la fulgida tradizione di questa garrula nazione, dove da sempre i terremotati invecchiano malinconicamente nell’attesa di chissà quando, veri precari della vita.
Sembrerebbe un bel momento. È un bel momento. Eppure nemmeno questa volta si riesce a gustare l’avvenimento in normale serenità. Così Franceschini, capo dell’opposizione, partecipa alla simbolica consegna: «È un reality in cui i terremotati sono trasformati in comparse». La dichiarazione trasuda un’incontenibile partecipazione umana, diciamo.
Ora: è vero che l’opposizione dura non può permettersi cedimenti sentimentali e ciglia umide. È vero che la vicenda Vespa-Floris pesa come un macigno sull’intera vicenda. Ma reality per reality bisognerebbe pur dire che comunque questo si presenta come il più bel giorno italiano di un brutto 2009, o uno dei più belli. Un giorno di tenue speranza. Un giorno di tiepida consolazione, perché quanto meno dimostra - in dosi ancora omeopatiche - che anche noi, dannazione, quando decidiamo di fare le cose seriamente, seriamente le facciamo.
Questo e altro, tutto quanto sovrastato dai timidi sorrisi dei primi aquilani messi a dimora, dovrebbe sconsigliare almeno il sarcasmo politico. Ci sono famiglie che hanno sofferto una tragedia, che sono rimaste senza nulla, che sotto le tende hanno trepidato nelle gelide notti di aprile e nelle torride giornate d’agosto: queste stesse famiglie adesso si sistemano in abitazioni decorose, realizzando un sogno, e non è per niente elegante dire che saranno comparse di uno squallido reality. Almeno loro, almeno la sincerità e la serietà del loro sollievo, dovrebbero restare fuori da questo nuovo pollaio politico.
Certo il premier non è tipo da comprimere dentro di sé la soddisfazione delle proprie opere. Questa sfida dell’Aquila l’ha preso molto più di tutte le altre, sin dall’inizio. L’ha mandata avanti nel suo stile pop, con lo stesso, cocciuto, tenace orgoglio di quand’era solo imprenditore, puntando dritto al risultato. E adesso che il risultato c’è, inutile chiedergli di sparire dalla scena: non è da lui. Passionale com’è, per nessun motivo al mondo si perderebbe il gusto di questa vittoria. Dei primi sorrisi all’Aquila. Se non fosse che alle spalle rimane comunque un dramma epocale, se non fosse che ancora tante famiglie restano in attesa delle prossime case, lo vedremmo ballare sui tavoli, scamiciato e canterino. Non è escluso che lo faccia, alla consegna dell’ultimo trilocale. Lui e Bertolaso, in coppia, come due reduci a fine guerra.
I commenti acidi di Franceschini rinfocolano invece l’idea della bassa speculazione, di un premier cinico e bieco che usa la catastrofe per sgraffignare consenso. È l’eterna teoria del potere ruffiano e paternalista, che ha nell’icona dei Gava e delle scarpe regalate agli elettori la massima rappresentazione. Ma mettiamo pure che Franceschini sia il più lucido, il più scafato, l’unico a vederci chiaro. Attribuiamo al premier le più squallide motivazioni. E diciamo pure che i terremotati si prestano a fare da povere comparse nei suoi spottoni televisivi. Che ci resta?
Una volta tanto, ci resta comunque un innegabile capolavoro di pronto intervento e di solidarietà umana. Ci resta, una volta tanto, la consapevolezza che i fatti possono vincere sulle parole. È moltissimo. Alla politica, da tempo, nessuno si sogna più di chiedere un mondo incantato: basta che faccia quello che serve, possibilmente bene, possibilmente presto. Il reality che non piace a Franceschini è esattamente quello che in aprile, all’indomani delle scosse mortali, gli aquilani chiedevano. Come dimenticarli. Lo chiedevano le nonne sedute sotto il sole, in attesa di una tenda, fuori dal campo sportivo.
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