Politica

Il Pd vuol scendere in piazza ma anche no

da Roma

È un sentiero stretto e a tratti scivoloso, quello che deve portare il Pd al 25 ottobre del Circo Massimo. Bisogna essere di lotta ma anche di governo, «responsabili» ma anche aggressivi, non sembrare filoberlusconiani ma neppure filodipietristi. Bisogna da un lato votare in Parlamento i provvedimenti anticrisi varati dal governo e dall’altro scendere in piazza contro quel medesimo governo.
La manifestazione si farà, non si può non fare perché sarebbe una ritirata disastrosa per l’immagine del Pd e della sua leadership. E lo Stato maggiore del partito, scettici compresi - e sono tanti - non attuerà alcun boicottaggio esplicito dell’appuntamento. Ma le perplessità, i dubbi, le defezioni singole sono all’ordine del giorno. Marco Follini (che il sismografo interno dà in crescente avvicinamento a Massimo D’Alema) è stato il più esplicito nel chiedere che la piazza venisse annullata. Francesco Rutelli ha parlato di una piattaforma «poco incisiva e comunque del tutto superata dagli eventi», da «ripensare radicalmente». Il sindaco di Venezia Massimo Cacciari ha fatto sapere per tempo che lui a scendere in piazza non ci pensava proprio. Il governatore campano Antonio Bassolino idem. Negli ultimi giorni si è smarcato il sindaco di Genova, Marta Vincenzi, spiegando che non è il momento di manifestare. In casa dalemiana nessuno prende ufficialmente le distanze, ma lo scetticismo non manca. Nicola Latorre spiega che la manifestazione dovrà essere «molto propositiva», e esclude parole d’ordine girotondine: «L’antiberlusconismo è una stupidaggine, una cosa che non ha senso, vecchia e senza più ragion d’essere. Lasciamolo a Di Pietro». Enrico Letta ripete a ogni piè sospinto che «questo è il momento della responsabilità nazionale», messaggio che mal si concilia con gli slogan da corteo. Nicola Rossi dice che «sarebbe saggio evitare la piazza», Massimo Calearo invita a «proporre invece che manifestare», Paola Binetti non andrà. E che tra quadri e militanti serpeggi una certa incertezza lo si è capito nei giorni scorsi. Quando è bastata una presa di posizione del coordinatore del governo ombra Enrico Morando («la manifestazione non sarà antigovernativa, maggioranza e opposizione devono fare fronte insieme all’emergenza») per scatenare un terremoto di fax e telefonate alla sede nazionale del partito, con i responsabili locali che avvertivano: «Così la gente in piazza non siamo in grado di portarla».
Ma a Veltroni e al suo Pd serve come il pane una prova di forza e di esistenza in vita, un appuntamento «identitario». E infatti ieri il segretario è sceso in campo, tramite intervistona a Repubblica, per cercare di rettificare il messaggio: nessuna «unità nazionale», confronto civile in parlamento perché «serve al Paese» ma niente sconti a Berlusconi.
L’Unità ieri gioiva per il corteo «arcobaleno» di sabato: «La sinistra riparte da sinistra», annunciava. Un modo per mobilitare anche il popolo Pd e chiamarlo in piazza, e per ridimensionare la concorrenza di Tonino Di Pietro, prendendo le distanze dalla sua piazza Navona, relegata nelle pagine interne. Il successo del 25 ottobre è obbligatorio, anche per evitare confronti demoralizzanti con il Circo Massimo di cofferatiana memoria.

Non a caso a lavorare ventre a terra all’organizzazione, insieme a Goffredo Bettini, c’è quell’Achille Passoni che era il braccio destro di Cofferati in Cgil, l’organizzatore dei memorabili «tre milioni» in piazza.

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