Peck, una leggenda a tutta acquolina

Peck, «un tempio dedicato alla cultura della cucina». Con poche parole, Carlo Bo ha dato la migliore definizione di un negozio unico nel suo genere, un simbolo di Milano. Aperto nel 1883 in Via Orefici come bottega di «salami e carni di tipo tedesco» da Francesco Peck, «salumiere di Praga», il negozio produsse, in poco tempo, salumi così prelibati da attirare una clientela d'élite: dalla Real Casa alle famiglie più in vista. Nel 1918 Francesco Peck si ritirò cedendo a Eliseo Magnaghi, che, mantenendo il nome del negozio, lo spostò in via Spadari, dov’è tuttora, allargando poi la gamma della produzione alla pasta fresca e a prodotti gastronomici pronti. Fu lui, affiancato dalla figlia Emi, a creare lo Sbafing club, come ironicamente chiamava il locale del retrobottega dove invitava persone del mondo intellettuale, a cominciare da D'Annunzio. Peck divenne così famoso che, nel 1937, il regista Mario Mattioli ambientò nei suoi locali il film Felicita Colombo.
Il negozio nel 1956 cambiò nuovamente proprietà. Subentrarono i fratelli Grazioli, due lombardi, figli di un salumiere. Sono gli anni in cui Milano cambia volto. Esplodono i consumi, frigoriferi e televisori. L'ultimo cambio nel 1970, quando i fratelli Stoppani di Brescia (Angelo, il primogenito, cavaliere del lavoro, Mario e Remo, a cui poi si aggiunse il più giovane Lino), venuti a Milano per fare i salumieri, riuscirono a divenire proprietari del più famoso negozio gastronomico della città. Gli Stoppani modernizzarono le strutture e puntarono a una qualità gastronomica ancora superiore. Ora al Peck lavorano 130 dipendenti e i suoi prodotti si trovano nel bar ristorante di via Cantù, nei duty-free shops di Linate, Malpensa e Fiumicino e in 18 negozi in Giappone.
«Ricordo molto bene il giorno in cui acquistammo il Peck. Era l'8 marzo 1979, una domenica. Avevo 18 anni - racconta Lino Stoppani -. I miei fratelli e i miei genitori vennero a Milano da Brescia a bordo di una FIAT 128 bianca. L'impresa ci era costata notevoli preoccupazioni e sacrifici, soprattutto finanziari. Abbiamo avuto la fortuna di trovare credito dalle banche milanesi, ma allora i banchieri valutavano le persone in base alle capacità imprenditoriali e alla moralità più che alle garanzie. Dal nostro canto ci siamo sempre preoccupati di reinvestire gli utili e abbiamo sempre condotto una vita sobria, senza vizi».
Offrire prodotti tanto prelibati e costosi richiede la convinzione di trovare clienti disposti a pagare per avere il meglio. Da questo punto di vista si può affermare che un negozio come Peck poteva esistere solo a Milano? «La sua domanda contiene già la risposta. Il milanese è un cliente esigente ma competente, accetta di pagare di più un prodotto se di qualità. È un cliente che non perdona, ma noi accettiamo le critiche, quando sono avanzate da persone competenti. Una volta Umberto Agnelli, uomo di ammirevole competenza gastronomica, criticò, perché grasso, il nostro salmone affumicato. Aveva ragione... ma lo aveva assaggiato nel mese di settembre quando il processo di conservazione del nostro salmone selvaggio, pescato a giugno, non era ancora completato».
E il personale? «Una priorità. Lavorare al Peck significa fare turni di lavoro in orari considerati scomodi, ma noi trattiamo bene i nostri dipendenti, dialoghiamo con loro, li seguiamo. Il risultato è che non hanno sentito la necessità di farsi tutelare da una rappresentanza sindacale. Siamo stati dipendenti anche noi...».
Un bilancio positivo. «Sì, anche se l'azienda stia vivendo un passaggio affascinante, e allo stesso tempo delicato: il passaggio fra la prima generazione e la seconda formata dai nostri quattro figli.

Mentre noi abbiamo dovuto costruire dal nulla, loro hanno il vantaggio di non dover fare i sacrifici e di affrontare problemi economici, ma è anche uno svantaggio, sia pur relativo dal momento che la necessità stimola le capacità intuitive delle persone. Trovare tutto pronto a volte appiattisce la mente e impigrisce, ma i nostri figli sono bravi e motivati».

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