Cronaca locale

Le pecore davanti a San Siro tra i palazzi disegnati da Ponti

Una mostra fotografica nella scuola di via Monte Baldo racconta l’evoluzione del quartiere tra sfida sociale e storie private. E' il 1951 quando alcuni grandi architeti danno il via al progeto dell'isola urbana

Le pecore davanti a San Siro tra i palazzi disegnati da Ponti

Là dove oggi il traffico impazzisce e dove ci sono i cantieri della nuova linea 5 della metropolitana una volta c’era un grande prato verde. Sembrano le prime strofe della via Gluck e un po’ lo sono perché, mezzo secolo fa, molti quartieri di Milano erano come la via Gluck che cantava Adriano Celentano. E se il Molleggiato fosse cresciuto all’ombra dello stadio San Siro tra le case del quartiere Harar Dessiè sicuramente avrebbe cantato le stesse cose. Sessant’anni fa, una vita. L’immediato dopoguerra è una fetta di città nuova di zecca tirata su dal nulla, progettata e disegnata dalle matite degli archistar di allora come Gio Ponti, il papà del Pirellone, e di Luigi Figini e Gino Pollini due «razionalisti» che lavorarono quasi sempre insieme e crearono tra le tante cose le Officine Olivetti di Ivrea.
É una città in bianco e nero, più semplice, educata, romantica e meno frenetica di quella di oggi, raccontata e illustrata in una mostra fotografica allestita nei giorni scorsi nella scuola di via Monte Baldo. «Poeticamente abita l’uomo», richiamando le parole del poeta tedesco Friedrich Holderlin, è una parata di grandi immagini che un gruppo di mamme e insegnanti della scuola del quartiere hanno raccolto con un lavoro certosino per raccontare sessant’anni di ricordi. Racconti, documenti d’archivio dell’Atm, del Mart di Rovereto, dell’Associazione Mazzocchi e dell’Università di Parma. Ma anche album privati prestati dalle famiglie che c’erano e da quelle che sono arrivate dopo. Un viaggio all’indietro in una città di sfollati, di immigrati che arrivano del Meridione, di persone che hanno voglia di riscatto e che a Milano si giocano tutte le loro speranze. Tanti dialetti, tante storie, tanta gente pronta a rimboccarsi le maniche. E il quartiere Harar Dessiè nasce anche per loro. É il 1951 quando davanti al prato dello stadio San Siro, che oggi si chiama Meazza ed ha un anello in più, comincia a prendere forma la nuova isola urbana. Per gli architetti non dovrà essere un quartiere satellite ma una propaggine urbana composta da case unifamiliari con orto e giardino raggruppate in «isole» e «grattacieli orizzontali». É una piccola rivoluzione di schemi che vede ampi spazi verdi, lontani dalle grandi vie del traffico e percorsi da piccole stradine pedonali. Non solo. Nella grande aiuola centrale Ponti, Figini e Pollini realizzano il «cuore» del quartiere con l’asilo nido, la scuola materna, l’elementare e il centro sociale che prevede anche la biblioteca. Ai tre grandi architetti si aggiungono poi altre firme importanti del razionalismo milanese: Bottoni, Chessa, Tevarotto, Tedeschi, Rosselli e Varisco. Ogni edificio è di un colore diverso: giallo per via Harar, rosso per via Dessiè e via Val Pellice, arlecchino a quattro colori per i due edifici gemelli di via Monte Baldo e via Novara. Il bianco con alcune righe marroni viene riservato per via Albenga e il beige per via San Giusto. In via Harar, che si affaccia davanti alle tribune dello stadio, c’è la firma di Gio Ponti. Ed è una firma immutata ancora oggi perché questa era la caratteristica dell’architetto. Per Ponti un’opera architettonica diventava un’opera d’arte se, una volta terminata, non poteva più essere modificata, sopralzata o allargata. É così è stato per l’edificio di via Harar 3 con le estremità del tetto che si alzano definitivamente verso il cielo e la scelta dei ballatoi a forma esagonale.
Ma il quartiere Dessìè era soprattutto a misura d’uomo. Ricordano i piccoli di allora: «Sotto i palazzi c’erano porticati e grandi androni che ci permettevano di giocare anche quando c’era brutto tempo. Nei giardini c’erano i giochi e si poteva stare in cortile anche fino a sera tardi perchè gli adulti si fermavano sulle panchine a chiacchierare...». Un quartiere orizzontale con villette e giardini che all’inzio non avevano divisori. Poi arrivarono le siepi e quando divennero troppo alte furono sostituite dalle reti. Ma c’era la voglia di stare insieme, c’era la solidarietà dell’avventura comune, una socialità favorita dalle costruzioni. Nelle case arrivarono alla spicciolata poliziotti, impiegati ministeriali, qualche ufficiale della Marina, dell’Aviazione e molti operai. S’integrarono in quello che oggi gli urbanisti chiamano «mix sociale».
Harar Dessiè è stato un quartiere che ha sempre dovuto fare i conti con lo stadio che sta lì sullo sfondo tra l’ippodromo e il Trotter. Prima un anello solo, poi nel 1955 il secondo anello poi il terzo e poi il quarto. Per molti un tempio, per altri un tormento di traffico e rumori. «La domenica quando c’erano le partite - ricordano i residenti - spesso si andava sul piazzale. Non c’erano troppi soldi per il biglietto. I ragazzi più grandi, i più audaci provavano a entrare scavalcando, gli altri aspettavano l’ultimo quarto d’ora quando aprivano i cancelli e si poteva andare a vedere uno scampolo di partita. Sul piazzale poi vendevamo i pacchetti di cicche per una lira e con quello che guadagnavamo ci pagavamo il biglietto d’ingresso a Lido».
Ma il piazzale dello stadio era anche il posto dove parcheggiavano tutti i tram dell’Atm, dove quando nevicava in città gli spazzaneve ammucchiavano tutta la neve raccolta, dove qualcuno in 600 veniva a fare le sue prime lezioni di scuola guida, dove vendevano le caldarroste. E poi via Novara, quella che portava fuori citta verso una campagna che ora è Parco di Trenno, Bosco in città, hinterland, città metropolitana. Una via con una storia infinita dove si affacciano le villettine a schiera a mattoni rossi, dove una volta c’erano le rotaie del Gamba de Legn e dove ogni mattina presto passavano i carri armati della caserma Perrucchetti che andavano sui campi per le esercitazioni. «Li sentivi arrivare perché tremavano tutti i vetri della casa- racconta un bimbo che in quelle villette è cresciuto con la nonna perchè la mamma lavorava alla Lagomarsino -. Rimanevi lì attaccato al vetro impaurito dal quel rumore infernale e stregato nel vedere quei bestioni che sfrecciavano...». Ma via Novara era anche la via dove c’era la latteria della famiglia Lutring, dove lavorava Luciano primna di diventare il «solista del mitra», e dove c’era un biliardino e una bellissima macchina per fare il gelato. Era la tappa fissa, il punto d’incontro dei ragazzi che uscivano dall’oratorio Sant’Elena e poi si ritrovavano. Tante sfide, tanti sogni e pochi, pochissimi, soldi in tasca. C’erano due gruppi di ragazzi: i grandi e i piccoli. I grandi iniziavano ad avere le prime moto e le prime fidanzate e i piccolini li guardavano con ammirazione. Non c’era tanto da fare: o in latteria o in cantina. Erano gli Anni ’60 quando nascevano i primi gruppi rock e nei sottoscala di qualche villetta alle pareti c’erano i cartoni in polistorolo delle uova. «Suonavamo quello che capitava - ricorda una Beatle di allora -. Chitarre, batterie, amplificatori. Da un mio amico però la cantina era così bassa che dovevamo suonare tutti piegati...». Sessant’anni fa.

Una vita.

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