Peloponneso, la madre (e la matrigna) di tutte le guerre

Tucidide è lo storico greco di punta. Ateniese, seconda metà del V sec. a.C., progettò la sua opera come ktèma eis aièi, «patrimonio perpetuo», da usare di volta in volta, secondo i bisogni. Ottimo profeta. Negli USA, è bestseller da 50mila copie l’anno. A West Point e su Military History Quarterly, i suoi reportage sull’assedio di Delo e di Platea, sullo scontro di navi nel Porto Grande di Siracusa fanno accademia. Il suo punto focale è pòlemos, «la guerra» (Tucidide era un militare, al comando di uno squadrone di triremi).
Lo storico ha per vicini di casa Socrate, Pericle, i sofisti: non stupiamoci se, prima di mettere nero su bianco, spacca il capello con la filosofia. Ecco il teorema: date due potenze politiche A e B (allora erano le città-stato, oggi i blocchi), per logica di natura A cercherà di sopraffare B, e viceversa, perché il conflitto è il Dna dell’uomo. La pace è pura chimera, quando le acque sono calme in superficie, ci si sta preparando allo scontro finale (impressionante anticipazione della «guerra fredda»). Conseguenza: la storia non è che l’analisi di sviluppo della dynamis, «la forza», politica, economica, bellica, ma anche spirituale e morale, degli stati in lotta. La guerra del Peloponneso (431-404, Atene contro Sparta, alleati terrestri e isolani coinvolti, la Persia sullo sfondo, in pratica un conflitto mondiale, con catastrofe di Atene) è il vertice: al confronto, quella di Troia fu una scaramuccia da menestrelli. Fu un evento speciale, l’atlante terribile su cui registrare, al completo, fulgori e miserie dell’aggressività selvaggia.
Da qui riparte Victor Davis Hanson con Una guerra diversa da tutte le altre (Garzanti, pagg. 476, euro 14,50, traduzione di R. Merlini). La «diversità» è l’intreccio di due circostanze. La prima, è che la guerra fu unica per estensione geografica, durata, mobilitazione, ferocia (soldati-bambini, cannibalismo, tattiche batteriologiche con avvelenamenti di pozzi e infiltrazioni di appestati nel campo avverso, «soluzioni finali» con stermini di massa e deportazioni); la seconda è che ci fu una penna implacabile, Tucidide, a documentarci l’anatomia dell’orrore, con il rasoio del suo codice scultoreo e razionale. Hanson tributa al greco una fedeltà da adepto. Lo tallona, lo chiosa, ne riprende i nuclei per spiegare, ricucendo all’oggi, convinto anche lui che la guerra sia endemica, dai randelli dell’età della pietra allo scudo stellare. Perfette le sue pagine sulla trireme, un saggio tecnico definitivo su un oggetto misterioso della guerra antica.
Quello del Peloponneso fu in gran parte un conflitto navale: sulla pagina di Tucidide la trireme è una star, ma l’autore ne tratta come di cosa nota, non si attarda sui particolari costruttivi. L’americano ci scaraventa tra quei duecento rematori per unità, tripartiti in squadre, nel lezzo umido del fragile sottocoperta, nell’adrenalina dell’uccisione imminente, annegati, fiocinati, spappolati dello sperone della nave attaccante. Ma liberi cittadini, perché con il suo miscuglio di ceti agli scalmi, la trireme era anche una cellula di democrazia, contrapposta alla falange aristocratica dei fanti armati a spese proprie.

Quindi la presa del libro di Hanson è da realtà romanzesca. Agghiacciante la nota che in 27 anni di disumana guerra antica, le vittime documentate, anche civili, furono meno che in pochi giorni di massacri civili, oggi, in Ruanda o in Cambogia.

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