Pensieri di un poeta E Pindaro spiccò il volo sulla Terra di Mezzo

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Quelli de «Il pensiero occidentale», la collana edita da Bompiani, hanno avuto una grande pensata: insieme con i filosofi titanici pubblicano gli scrittori e i poeti sommi. Hanno capito, insomma, che la storia del pensiero la fanno Kant come Dostoevskij, Aristotele come Eschilo. Giusto per spiegare perché tra Giambattista Vico e Cartesio, tra Giovanni Reale e Giulio Cesare Vanini ora abbiamo anche Tutte le opere di Pindaro (pagg. 704, euro 30) tradotte e curate da Enzo Mandruzzato.
Piccola parentesi di storia dell’editoria nostrana: l’idea di mettere sullo stesso carro filosofi e poeti non è nuova. Il primo a pensarci è stato Giorgio Colli il quale, tra il 1958 e il 1967, per l’editore Boringhieri, s’inventa e cura la collana «Enciclopedia di autori classici». Senza distinzioni tra Oriente e Occidente, tra scrittori puri e filosofi scrittori, tra scienziati e storici, Colli pubblicherà Giacomo Leopardi e Lev Tolstoj, Platone e Emerson, Attar e Goethe, le Upanisad e Fermat, Newton e Darwin e tanto altro ancora, in un sublime carnevale della cultura.
Uso Colli, grecista di razza (per Adelphi ha curato il corpus della Sapienza greca), per capire Pindaro: «L’enigma è il manifestarsi del divino nella sfera umana - è l’orma dell’indicibile. La poesia greca è enigmatica». Il motto (tratto dai quaderni di Colli, raccolti da Adelphi come La ragione errabonda) illumina l’opera di Pindaro, il poeta alato, aristocratico, irraggiungibile, che, come Eschilo, va consultato come un oracolo, come se si leggessero le sentenze di Eraclito o quelle della Pizia, come se un dio vi sussurrasse all’orecchio, e che per questo è stato il poeta più frainteso di Grecia. Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff sul punto ha già detto tutto, «egli è Pindaro, questa persona tutta d’un pezzo, quest’uomo, questo profeta delle Muse», eppure, «il suo mondo ci è del tutto estraneo; i suoi costumi, il suo poetare, le sue aspirazioni sono per noi, ove non ci urtino, privi di fascino».
In effetti, a parte il fragore olimpico (ecco l’inno che glorifica ogni Olimpiade: «Se brami celebrare gare d’uomini/ non cercherai nel cielo solitario/ un astro più del sole chiaro e ardente:/ non canteremo prove/ più di queste di Olimpia elette») e l’aggettivo pindarico, di Pindaro non sappiamo nulla. E la sua fragranza filosofica, riassunta nel passo memorabile «sogno d’un’ombra è l’uomo» (pensate di questo verso che cosa fa Shakespeare...), e nel concetto che il dio è tutto e l’uomo un niente, ci è ormai sovranamente ostile. Il fatto è che Pindaro non è un poeta docile, non si lascia incartare in una moderna scatola di cioccolatini, come Saffo, Alceo e un po’ tutti i lirici greci, magari ingentiliti da un poeta moderno come Salvatore Quasimodo. Pindaro spaventa.
Detto il bello, viene il punto dolente. Che onore avere Pindaro bene impacchettato da Bompiani! Peccato che curatela, traduzione e architettura varia siano quelle storiche di Mandruzzato, già pubblicate da Cappelli nel 1980 con il titolo L’opera superstite, già ripubblicate da SE dieci anni dopo. Nessun problema, per carità, il problema sorge spontaneo se stiamo ancora qui a raccontarci che Pindaro è «accolto nelle storie letterarie per necessità e per deferenza», che è «nei tempi moderni più immaginato che letto». In effetti, da allora (cioè dagli anni Ottanta) qualcosa è cambiato, bibliograficamente (le più belle Olimpiche le ha tradotte Luigi Lehnus per Garzanti; nel 2008 Franco Ferrari ha tradotto le Pitiche per la Bur; Roberta Sevieri ha curato una bella versione dei Frammenti per La Vita Felice), ma anche antropologicamente.


Insomma, siamo un popolo che va in brodo per Il Signore degli Anelli, ci sono orde di ragazzini che maneggiano Il Silmarillion, abbiamo ripreso confidenza con le saghe, con i miti, con ogni bizzarria iperurania. Badate gente, Tolkien ha profonde affinità con le gesta narrate da Pindaro, con le stirpi mitiche che il genio annoda nelle sue sgargianti odi. Fate così, provate a leggere Pindaro come il padrino di Tolkien.

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