Pensionati più vecchi? Sì, forse, anzi no

Peccato, peccato davvero, che sia stato un «refu­so». Quella nor­ma che agganciava alla speranza di vita anche i requisiti contributivi per andare in pensione, era ben fatta. Per mezza giornata ci siamo illusi che il governo e la mag­gioranza avessero trova­to la risolutezza neces­saria a completare una riforma delle pensioni che nei mesi scorsi ha ri­scosso l’approvazione unanime dei maggiori organismi economici in­ternazionali

Peccato, peccato davvero, che sia stato un «refu­so». Quella nor­ma che agganciava alla speranza di vita anche i requisiti contributivi per andare in pensione, era ben fatta. Per mezza giornata ci siamo illusi che il governo e la mag­gioranza avessero trova­to la risolutezza neces­saria a completare una riforma delle pensioni che nei mesi scorsi ha ri­scosso l’approvazione unanime dei maggiori organismi economici in­ternazionali, dal Fondo monetario in giù. Così non è stato. Dopo mez­z’ora dal «no» pronun­ciato dal segretario del­la Cisl, Raffaele Bonan­ni, il ministro del Lavo­ro Maurizio Sacconi ha dettato una nota imba­razzata che sa di retro­marcia: è stato un «refu­so », ha detto, lo cancel­leremo.

Due parole per spiega­re ai lettori la materia del «refuso». L’estate scorsa Giulio Tremonti aveva fatto, d’intesa con Sacconi, un blitz i n­serendo tra le pieghe della manovra economi­ca un codicillo che ag­ganciava l’età pensiona­bile alle speranze di vita certificate dall’Istat. Un intervento di buon sen­so: se si vive di più, biso­gna lavorare più a lun­go. Lo capisce chiun­que. Per un momento è sembrato che il gover­no volesse tentare il bis, estendendo il principio «più vivi a lungo, più la­vori » non soltanto al­l’età anagrafica ma an­che a quella contributi­va. In breve, i 40 anni di contributi versati non avrebbero più concesso il diritto automatico di andare a riposo. Inoltre l’adeguamento alla spe­ranza di vita sarebbe sta­to più frequente, ogni tre anni anziché ogni cinque. Il tutto a partire dal 2016. Queste, in sintesi, le nuove norme che han­no avuto vita brevissi­ma, poche ore, in Parla­mento. S’era capito su­bito che il loro cammi­no sarebbe molto acci­dentato.

I sindacati, sempre prontissimi alle battaglie di retroguar­dia, hanno incomincia­to a tirar su le barricate. La Cgil ha parlato di «fol­lia». Anche la Cisl e la Uil, che pure in queste settimane avevano da­to prova di moderazio­ne di fronte alla stretta imposta dalla manovra, hanno detto «no». Pochi hanno riflettu­to sul fatto che se oggi l’Italia non è la Grecia, e neppure la Spagna, lo dobbiamo anche a quel blitz dell’anno scorso. Se le perfide agenzie di rating ci lasciano in pa­ce, menando invece col­pi durissimi su Atene e Madrid, il motivo è prin­cipalmente la sostenibi­lità nel tempo del no­stro debito pubblico, pur elevatissimo. Le ri­forme delle pensioni ap­provate di anno in anno sono parte integrante di questa sostenibilità. Non è un caso se tutte le grandi organizzazioni economiche internazio­nali, dal Fondo moneta­rio all’Ocse, fino alla stessa Commissione eu­ropea abbiano ricono­sciuto pubblicamente che l’Italia ha fatto più di tutti gli altri per assi­curare la spesa pensio­nistica contro le esplo­sioni future. Per un momento è par­so che si volesse andare avanti in questa direzio­ne. L’emendamento al­la manovra economica altro non era che la prosecuzione dell’interven­to fatto lo scorso anno. L’Italia, dopo il Giappo­ne, è il Paese in cui si vi­ve di più. Le ultime sti­me parlano di 85 anni per le donne e 80 per gli uomini. Vivere più a lun­go significa anche lavo­rare più a lungo: lo dice l’economia, ma soprat­tutto la logica.

E nessu­no venga a ripetere la vecchia tiritera secon­do cui gli anziani al lavo­ro rubano posti ai giova­ni. È esattamente il con­p g trario. Nei Paesi in cui si lavora più a lungo, il tas­so di disoccupazione giovanile è più basso. Per tutti questi motivi è un vero peccato che si sia trattato di un «refu­so».

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