Pensioni, Sarkò batte i sindacati Lo sciopero anti riforma è un flop

Tantissimi manifestanti per le vie di Parigi, Marsiglia, Bordeaux; eppure lo sciopero di ieri indetto dai sindacati francesi contro la riforma delle pensioni è in buona parte fallito. Perché più che il numero delle persone scese per strada contava il tasso di astensione negli uffici, nei ministeri, nelle fabbriche. Che è stato basso. Mediamente solo un francese su cinque ha risposto all’appello della sinistra, pari al 19,7%. In occasione della giornata di protesta dello scorso 3 settembre a fermarsi era stato ben il 26% della forza lavoro.
La frenata è netta, di almeno sei punti. Il suo servizio stampa dell’Eliseo ha fatto notare, lestamente, che nel 2003 a protestare contro Chirac, in circostanze analoghe, era stato quasi il 60% dei dipendenti pubblici. Altri tempi, altra Francia.
L’impressione, al termine di una giornata meno caotica del previsto, è che il movimento di protesta tenda a sgonfiarsi e che la maggior parte degli elettori giudichi la riforma voluta da Sarkozy tutto sommato accettabile; quale, infatti, oggettivamente è.
Non si può certo affermare che i «figli di Marianna» abbiano lavorato in condizioni di pesante sfruttamento. Ricordate le settimane da 35 ore? Di fatto tre volte al mese i francesi potevano permettersi week-end di tre giorni senza intaccare le ferie. E ancora oggi, con un’età media di 59,5 anni, lasciano il lavoro prima di chiunque altro in Europa.
Esaminando nel dettaglio la riforma, emerge che Sarkozy non ha proposto una rivoluzione thatcheriana, ma un aumento graduale dell’età pensionabile che da 60 passerà nel 2018 a 62 anni. Un piccolo sacrificio accompagnato, peraltro, da un aumento dei contributi sociali sui redditi più alti. Dunque: il francese medio lavora qualche mese in più, ma quello ricco mette mano al portafoglio. Più che un svolta liberista, sembra un cambiamento in salsa socialdemocratica, reso inevitabile dal peggioramento dei conti pubblici.
I sindacati ieri, naturalmente, hanno ignorato i dati sullo sciopero esaltando le immagini della contestazione che ha invaso i viali delle grandi città. «Siamo più numerosi che lla volta scorsa», ha dichiarato uno dei leader. In realtà erano più o meno gli stessi, 2,7 milioni per le organizzazioni di categoria, 1,1 secondo la polizia. La lotta, naturalmente, continuerà.
Ma al di là delle schermaglie verbali, sta emergendo una frattura sociale, per una volta tutt’altro che distruttiva. Da una parte la sinistra chiassosa e retorica, ferma agli anni Ottanta, che pretende molto e offre poco; dall’altra un’opinione pubblica la quale si rende conto dei privilegi di cui gode e pensa che non sia sbagliato lavorare un po’ di più per preservare uno stato sociale, in cui peraltro continua a credere. E con qualche buona ragione.
Diciamolo francamente: in Francia quasi tutto funziona. Non è un caso che proprio ieri sia risultata il Paese con la qualità di vita più alta della Unione europea. La Sanità pubblica è talmente efficace da rendere di fatto superflua quella privata. I trasporti pubblici, su strada e su rotaia, sono esemplari. Le famiglie numerose vengono giustamente aiutate, con forti deduzioni fiscali, al punto che oggi circa il 50% dei contribuenti non paga imposte sul reddito. La burocrazia è molto più snella che in Italia. Insomma, la Francia, sebbene non sia più un impero, conserva nei suoi cromosomi la disciplina e il senso dello Stato di una grande Nazione, avvolti nei valori egualitari della Rivoluzione francese.
Un cocktail irrepetibile che porta con sé anche delle contraddizioni: la Francia splende nelle classifiche virtuose, ma anche in quella dei Paesi con il maggior numero di ore di sciopero all’anno. Consoliamoci: ci batte di gran lunga.

In questo strano 2010, queste contraddizioni sembrano finalmente sfumare e, sebbene sia presto per affermarlo con certezza, si intravvede la fisionomia di una Francia meno giovanile, meno impulsiva e più saggia, più concreta. Ma, in fondo, fedele a se stessa.

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