Il pentito: «Così da San Vittore ordinai di uccidere mia moglie»

La sera che a Segrate ammazzarono Moira, i carabinieri di Segrate avvisarono il pubblico ministero di turno. Il pm si chiamava Antonio Di Pietro e una decina di giorni dopo sarebbe divenuto famoso in tutta Italia, arrestando Mario Chiesa e dando il via all’operazione Mani Pulite. Per un po’, Di Pietro e i carabinieri scavarono intorno a quel delitto apparentemente senza spiegazione: chi va ad ammazzare una donna di ventisei anni come un boss di mafia, esecuzione a sangue freddo, zero tracce, zero testimoni?
Si frugò nelle poche macchie del passato di Moira. Si andò a interrogare quel poco di buono da cui aveva avuto un figlio: Luigi Cicalese, veterano della Milano peggiore, che se ne stava chiuso a San Vittore. Andarono a sentirlo in cella. Disse che lui proprio non si sapeva spiegare cosa fosse successo. Era disperato, Cicalese, o almeno così sembrava. L’inchiesta finì lì. Il fascicolo fece polvere. Di Pietro, come è noto, si dedicò ad altro.
Sono passati diciassette anni. E adesso, all’improvviso, la luce di una inchiesta piomba su quel fascicolo impolverato. Racconta che il compagno di Moira la verità, fin da quel 5 febbraio del ’92, la conosceva fin troppo bene: perché a ordinare la morte della donna era stato proprio lui, Cicalese, facendo partire l’ordine dalla sala colloqui di San Vittore, per vendicarsi dei tradimenti della donna che «radio carcere» gli riferiva in diretta. E negli atti dell’indagine c’è ora anche il nome del killer, l’uomo per cui la Procura si prepara a chiedere il rinvio a giudizio per omicidio volontario. È un nome che aggancia l’oscura morte di Moira a uno dei fatti più eclatanti della Milano nera: l’assalto al furgone blindato in via Imbonati, alba del 14 maggio 1999. Nell’uragano di fuoco seguito a quell’assalto rimase ammazzato un giovane agente della Volante, Vincenzo Raiola. A sparare con tecnica militare, un commando fatto di ex terroristi rossi e criminali comuni. Tra loro, Nicola Petrillo, rapinatore di professione.
Per la morte del poliziotto Raiola, Petrillo è stato condannato all’ergastolo con sentenza definitiva. Così non si è agitato più di tanto quando, nelle settimane scorse, il pm Gaetano Ruta è andato in carcere per contestargli la nuova accusa: quella di avere ammazzato con tre colpi di pistola a bruciapelo la povera Moira. «Parliamo di quel delitto», gli ha detto il pm. «Io non ho niente da dirle», ha risposto Petrillo. E si è fatto riportare in cella, con l’aria del duro che non ha nulla da perdere.
La situazione, per lui, non è rosea. Perché a tirarlo in ballo per l’omicidio di Segrate è stato direttamente Cicalese, il mandante. Un anno fa Cicalese si è pentito. E oltre a raccontare alla Dia fatti e misfatti del clan di Pepè Onorato, storico boss della ’ndrangheta a Milano, ha fatto riaprire le indagini su due vecchi omicidi, altrimenti destinati a restare insoluti. Entrambi i delitti hanno avuto per vittima giovani donne. Una era l’avvocato Maria Spinella, assassinata nell’ottobre 2006. L’altro delitto, ancora più remoto, era l’uccisione di Moira Piazzola. Cicalese se n’è assunta la responsabilità. Ha spiegato che in carcere gli arrivavano voci di ogni tipo. Che Moira faceva la bella vita. Che non si prendeva cura del bambino che avevano avuto insieme. E, soprattutto, che si prendeva qualche libertà con la cassa, con il gruzzolo che - come ogni balordo che si rispetti - Cicalese aveva messo da parte per i tempi di magra.
«Così durante un colloquio dissi a mio cognato Emanuele Piazzese di farla fuori. Dopo la morte di Moira, Emanuele mi venne a trovare. Mi disse che lui e il nostro amico Pino Liria si erano rivolti a Nicola Petrillo. Piazzese le aveva telefonato per farla scendere in strada, Moira era andata giù tranquilla perché di lui si fidava.

E Petrillo le aveva sparato in testa».
Scrisse un giornale, pochi giorni dopo: «Solo un esecutore informato dal mandante sulle abitudini di Moira poteva pianificare con tanta precisione il delitto». La verità, a ben cercarla, non era tanto lontana.

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