Politica

Perché i giudici perseguitano il Cavaliere

I giudici sono sul piede di guerra. Non è una novità. Lo sono da tempo, più precisamente dal 1994 quando Berlusconi scese in politica e impedì ai comunisti (allora lo erano davvero), usciti indenni da Tangentopoli, di prendere il controllo del Paese. Ieri però si sono agitati parecchio, affermando che il Cavaliere si vuole sottrarre alla giustizia attraverso nuove leggi che lo salvino dai processi presenti e futuri. Ci vuole davvero coraggio a sostenere questa tesi considerato che il premier è forse l’uomo più indagato al mondo. In questi ultimi quindici anni contro Berlusconi sono stati aperti 109 processi, fissate 2.500 udienze, effettuate 530 perquisizioni. E praticamente tutti atti giudiziari per fatti precedenti alla sua entrata in politica. Ogni atto, affare e transazione del gruppo Mediaset-Fininvest è stato passato al microscopio, ricostruito ad anni di distanza. Nessun malfattore, criminale, serial killer, ma anche nessun imprenditore grande o piccolo è mai stato sottoposto a tale trattamento che all’interessato, cosa non secondaria, al momento è costato oltre trecento milioni, seicento miliardi di vecchie lire, in avvocati e consulenze. Il più delle volte Silvio Berlusconi è stato chiamato in causa non direttamente ma in quanto capo di un impero con oltre cinquantamila dipendenti dei quali, secondo l’accusa, non «poteva non sapere» eventuali malefatte. Teoria mai applicata nei confronti di altri industriali, Agnelli e De Benedetti (tanto per non fare nomi), che sono così usciti indenni dalle disgrazie dei loro rispettivi gruppi.
E questo sarebbe un uomo che vuole «sottrarsi alla giustizia»? Sarebbe meglio dire che questo uomo è braccato dalla giustizia con un accanimento senza precedenti. Tentare di divincolarsi, oltre che umano dovrebbe avere almeno l’attenuante della legittima difesa. E invece no. Pur di inchiodarlo l’accoppiata diabolica giudici-politici è riuscita anche nel capolavoro di togliere alle persone che guidano il Paese qualsiasi filtro, cioè immunità temporanea, nei confronti della magistratura. Che ora può decidere chi e come deve governare senza nessun controllo o mediazione. Ma la casta delle toghe non si accontenta ancora. Vuole di più, cioè sostituirsi anche al Parlamento e decidere quali leggi debbano essere approvate e quali no. Non dico all’università, ma alle scuole elementari ci insegnano che ci sono tre poteri distinti: governo, Parlamento e magistratura. Il primo propone, il secondo legifera, il terzo controlla. Oggi scopriamo che non è più così: i controllori vogliono arrogarsi il diritto di decidere le leggi, a partire da quella che li riguarda più da vicino, cioè la riforma della giustizia. Eppure non ci vuole un esperto per decretare che i nostri tribunali non possano più andare avanti così, che oggi chi incappa nelle reti della legge affronta un calvario infinito, che anni di politica invasiva, impicciona e debole hanno permesso alla casta dei magistrati di diventare il primo partito della sinistra italiana.
Ieri, contro la possibilità che il Parlamento affronti la questione di petto, nei Palazzi di giustizia è riecheggiata la parola «sciopero». Come accadde nelle fabbriche della Fiat quando Cesare Romiti tentò di rimettere mano a qualità e bilanci dell'azienda, come urlano gli studenti quando la Gelmini prova a far passare il concetto che chi non studia deve essere bocciato, come fanno i ferrovieri che vogliono l’aumento nella busta paga. L’obiettivo è chiaro: gettare il Paese nel caos e addossare anche questa colpa a Berlusconi. Ma di che cosa hanno paura questi giudici? Di non poter più condannare il cattivo di turno? Non credo. Con Berlusconi ci hanno provato 109 volte e non ci sono riusciti con le leggi, i poteri e i privilegi attuali. In realtà temono di dover tornare a fare semplicemente il loro lavoro, per il quale sono lautamente pagati. Un governo, direi un’intera classe politica che si rispetti dovrebbe andare avanti diritta sulla sua strada senza farsi spaventare o peggio ricattare come un Marrazzo qualsiasi.

Costi quel che costi.

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