Alessandro Massobrio
A prima vista ti ricorda l'Hemingway vecchio, con i folti baffoni bianchi e l'incedere un poco ondeggiante, tipico del cacciatore, che ha trascorso molte primavere nel silenzio della savana. Poi però, quando lo senti parlare dell'Italia e della sua arte con quel suo accento strascicato, da antico - come si definisce lui stesso - «fanciullo del West», allora ti ricorda un altro americano, che per questo nostro Paese ha dovuto per lunghi anni rinunciare alla propria libertà. Mi riferisco evidentemente ad Ezra Pound, un poeta che Mitchell Wolfson jr. deve conoscere assai bene se gran parte della sua autobiografia è da leggere attraverso quell'universo di cose che fecero da contorno, negli anni Trenta e Quaranta, anche al grande scrittore d'oltreoceano.
Mitchell Wolfson, Micky per gli amici, in realtà, dal punto di vista anagrafico, è parzialmente estraneo alla vecchia Europa prebellica, perché la sua data di nascita è il 1939. Come egli stesso ha confessato nel corso della conferenza stampa svoltasi ieri nella nuova sede espositiva di via Serra Groppallo a Nervi, la sua esistenza è stata lambita solo parzialmente dalla grande arte della prima metà del Novecento, ma quella del collezionista deve essere una sorta di virus incurabile, che, una volta contratto, non concede pause o soluzioni di continuità.
Come recita la sua biografia, Wolfson, in viaggio per la prima volta per l'Europa nel 1956, acquista su di una bancarella di Parigi, una copia del The Rime of Ancient Mariner di Coleridge e da quel momento scopre in se stesso la volontà di ricostruire, oggetto dopo oggetto, libro dopo libro, mobile dopo mobile, quel presente che è già passato, quell'attimo fuggente che nessuno mai - e ne sapeva qualcosa Orazio - è riuscito ad imprigionare nella teca di cristallo di un museo.
Una sfida, dunque, tutta da giocare. Mitchell Wolfson incomincia così la propria opera di meticoloso - e illuminato - collezionista. Il mare magnum eterogeneo e smisurato che raccoglie nel corso della sua esistenza, è rappresentato da tutti i possibili oggetti che creano la civiltà. La civiltà della dinamo e del carbone, tanto per usare una definizione cara ad Henry Adams.
Le date vanno dal 1880 al 1950. Nell'ambito di questi settant'anni, la Wolfsonian Fundation, la cui sede statunitense viene, nel frattempo, fissata a Miami, continua l'opera di illuminata ricerca e raccolta.
Poi, nel corso degli anni Settanta, Wolfson si imbatte in Genova. La città antica e misteriosa affacciata sul mare, fa nascere in questo figlio del nuovo mondo il desiderio di radicarsi anch'egli in una storia millenaria, di divenire tutt'uno con le innumerevoli generazioni che lo hanno preceduto. La creazione della sede espositiva permanente della Wolfsoniana a Nervi con i suoi 20.000 pezzi, il meraviglioso parco che la circonda, il cielo azzurro che le si incurva sopra come la volta di una basilica, nascono da questo incontro fortuito, ma anche - è bene sottolinearlo - dall'opera intelligente di molti enti pubblici e di altrettanti operatori culturali.
In primo luogo la Fondazione Colombo, il braccio, diciamo così, culturale della Regione, che ha trovato in Mario Bozzi Sentieri un presidente sensibile ed attento alla ragioni dell'arte e della modernità e in Fabio Morchio un assessore competente e preparato. Poi, il Comune, presente con Luca Borzani, che ha fornito i locali della ex scuola Vivaldi. Infine, la Fondazione Carige, che ha partecipato ai lavori di ristrutturazione dello stabile.
Una sinergia che ha donato a Genova un nuovo museo, anzi, ha fatto di Genova uno dei poli dell'arte moderna e contemporanea, visto che il percorso della Wolfsoniana è preceduto ed ampliato da GAM e Museo Luxoro. Un percorso a ritroso attraverso il tempo e lo spazio, lungo scenari di ineguagliabile suggestione, tracciati dai tre curatori della mostra, Silvia Barisione, Matteo Fochessati e Gianni Frantone. Attenti nel tracciare una linea di continuità all'interno di una congerie di oggetti tanto diversi .
Innanzitutto, un impatto risorgimentale. L'ingresso della Wolfsoniana è, infatti, presidiato dai quattro «padri della patria». Garibaldi, Mazzini, Cavour e Vittorio Emanuele II, opera dello scultore piemontese Giuseppe Carnevale, si ergono all'ingresso, concepiti secondo una iconografia tradizionale che ne accentua la gestualità non poco enfatica.
Ma basta salire al primo piano per imbattersi nel misterioso e ramificato mondo dell'esotismo liberty fine Ottocento. Il gusto di un Oriente tanto misterioso quanto di maniera (un Oriente che sarebbe assai piaciuto a Charles Baudelaire e alle sue eroine dalle movenze di languidi fiori del male) ci avvolge come i fumi del benzoino e dell'incenso, mentre vaghiamo tra letti a forma di piramide e cassettoni che espongono vedute della mitica Ninive.
Designer come il milanese Carlo Bugatti reinterpretano il mondo islamico secondo gli schemi di un decorativismo che si rispecchia fedelmente nelle pellicole in bianco nero ( si pensi a Cabiria) d'inizio secolo. Sorprendente è invece al «camera dei bambini» di Antonio Rubino, illustratore e poeta dell'infanzia, che ci ha lasciato il meglio di sé sulle pagine del Corriere dei Piccoli. Rubino intinge il proprio pennello nelle boccette dei più svariati colori per fornirci un interno infantile dove la fantasia e, spesso, l'incubo sembrano darsi la mano. Per aggredire nel sonno quelli che un tempo erano chiamati «gli innocenti».
Al secondo piano, il gusto déco incomincia ad acquisire sempre meno spazio. Siamo ormai in pieni anni Venti e lo «stile Novecento», promosso da Margherita Sarfatti, tende ad affermarsi tanto nell'architettura quanto nelle arti decorative. L'aspirazione è quella di conquistare una classica sobrietà che non neghi comunque le conquiste delle avanguardie del decennio precedente. La Wolfsoniana recepisce il messaggio, presentando alcune sedie disegnate da Marcello Piacentini o quelle in tubolare metalliche che l'architetto Luigi Carlo Daneri utilizzerà per arredare la Colonia Piaggio di Santo Stefano d'Aveto.
Il futurismo, anzi, il cosiddetto secondo futurismo, quello del Marinetti ormai conquistato al mito del modernismo fascista, si offre al pubblico attraverso alcune tele di «aeropittura» e soprattutto nel dipinto di Ernesto Thayaht (1939), che riproduce Mussolini nelle vesti de Il grande nocchiero. Dove il Duce appare come una sorta di gigantesco robot, impegnato a guidare i destini di una nazione ormai avviata alla completa militarizzazione.
Ma è soprattutto nella sala dedicata alle mostre temporanee che il visitatore non può trattenere il suo stupore. Qui sono infatti conservati gli inediti disegni di Romano Dazzi per i soffitti della Sala delle Colonie nel Palazzo del Senato. Gruppi massicci, tracciati in color seppia, si ergono in pose che richiamano alla mente la tradizione del Quattrocento toscano, con particolare riferimento al Masaccio.
Si è tentati di pensare, di fronte a tanta nobiltà di gesti e portamento, che la romanità del Ventennio, quella tanto derisa come una grottesca e anacronistica evocazione del nulla, fosse in realtà alimentata da una vena segreta di italianità. Quell'italianità strapaesana che rivive grazie alla paziente vocazione di raccoglitore di questo comune amico d'oltreocenano: Mitchell Wolfson Jr.
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