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Addio a Pasolini Zanelli, colonna del "Giornale" di Montanelli

Una vita in giro per il mondo a raccontare i grandi leader e fatti internazionali. L'amore per Parigi, la stima e amicizia per Reagan e quel rifiuto di guidare il "Giornale" su proposta di Montanelli.

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Lo ricordava con affetto il direttore, "il mio migliore amico" diceva con un certo orgoglio, che gli propose anche la direzione: "Ti faccio condirettore con la promessa di successione". Ma rifiutò. Indro Montanelli fece il "broncio" come tipico di quei toscani un po’ permalosi e capricciosi. Ma erano uomini di mondo navigatori di mari tempestosi e bastò una stretta di mano per chiarirsi.

Appartenevano ad un’epoca dove la storia non solo l’avevano studiata e respirata ma vissuta da protagonisti. Da un lato Montanelli con la sua vita romanzesca, gli incontri e gli aneddoti; dall'altro lui, Alberto Pasolini Zanelli, il nobile emiliano-romagnolo, penna fine ed eccelsa, appassionato di politica internazionale, dai tratti e lineamenti immancabilmente aristocratici portava su di sé il peso di un illustre casato. Il nonno era stato senatore liberale con Giovanni Giolitti: "Eravamo inoltre imparentati con il regista Pasolini".

Come Guido Piovene era un altro conte al servizio del Giornale. Non partecipò alla fondazione nel 1974 ma arrivò tra “l’argenteria di famiglia” montanelliana (Di Bella) nel 1977 tramite Enzo Bettiza. L’affascinante scrittore, giornalista ed esperto di comunismo che dalle colonne del quotidiano smascherò il socialismo reale nel suo volto violento e repressivo anticipandone il declino. E insieme al fraterno amico Frane Barbieri dettero vita (più merito del secondo) al termine di “eurocomunismo”. Bettiza, Barbieri, Corradi, Cervi, Pasolini Zanelli, Mezzetti, Gualazzini, Caputo etc. Quante firme straordinarie di politica internazionale in quel quotidiano.

Si trattava di un giornale che non solo era un manifesto dei migliori principi del liberalismo e conservatorismo europeo ma espressione di un mondo in cui l’eleganza, il garbo, la gentilezza e galanteria facevano parte del codice genetico per chi ne volesse varcare il massiccio portone (di via Negri 4 a Milano).

Alberto Pasolini Zanelli viaggiò in ogni parte del mondo, seguendo regimi, autocrazie, colpi di Stato, democrazie in ascesa e caduta. Ovunque c’era un fatto lui prendeva l’aereo e partiva. Conobbe e descrisse da vicino i grandi leader della terra: Eltsin, Gorbaciov, Allende, Castro, Brandt, Kohl e Mitterrand, tra i tanti.

Ma tra i ricordi più belli c’erano i due storici alleati di ferro: Margaret Thatcher e Ronald Reagan.

Di lei, donna pragmatica, risoluta e apparentemente fredda ricordava invece il tratto femminile (spesso secondario) e le giarrettiere che mostrò in modo non volontario durante uno dei tanti festeggiamenti elettorali: “Fu l’artefice del miracolo economico inglese. Non lo fece in modo bonario come Reagan ma con durezza”.

Il presidente americano, “un amico stimato e apprezzato” – “di cui era stato spesso ospite alla Casa Bianca” diceva il nostro comune amico Valerio Barghini rispettandone la riservatezza – fu un modello di leadership che consentì al mondo intero di riprendere il difficile cammino del dialogo, della distensione tra potenze e della libertà. Tutti elementi alla base di quella storica “dottrina Kissinger” che continuò felpatamente a influenzare – più o meno tutti – i tanti inquilini dello “studio ovale”.

Proprio alla morte di Reagan raccontava commosso e ammirato di quando alla fine del funerale la moglie e Gorbaciov andarono entrambi in silenzio verso la bara dell’ex presidente e deposero due fiori in suo omaggio.

Il giorno della caduta del muro di Berlino che sancì la sconfitta storica, politica ed economica del comunismo (ma non la sua forza ideologica) come modello di società, era a Milano, nello studio di Montanelli. Insieme assistettero alle immagini di quei tanti ragazzi che picconavano le pietre. Immancabile il suo commento: “Indro preparo il pezzo!”. “No, è uscito un tuo fondo oggi e non è elegante che esca con la stessa firma due giorni di fila”. Prontamente replicò: “Allora fallo tu”. “No, alle otto ci aspetta a cena Marisa”. “Sua compagna e donna bellissima”. Commento finale con moderata risata che sa tanto di tempi passati e che portavano con sé una dolce nostalgia: “Montanelli era un uomo molto puntuale”.

Dall’America dove viveva da tantissimi anni sognava Bologna ma soprattutto amava Parigi e sperava di rivederla ma era già tanto tempo che non stava bene. Chissà se dall’alto, nel lungo tragitto che porta nel regno dei cieli, riesca anche solo per un minuto a rivedere la città rigogliosa di gerani e gemme preziose.

Roteando occhi e volto, gesticolando e borbottando come solo i “toscanacci” sanno fare, avrebbe detto Indro: “Bada bischero! Se n’è andato anche lui”. In silenzio e senza fare chiasso, come tipico di quei vecchi galantuomini nobili e gran borghesi che ancora tanto avrebbero da insegnarci.

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