Sulle tracce del bambino che morì a El Alamein. Ma credendo nella Patria

La vicenda di Sergio Bresciani e del suo sacrificio fa riflettere sull'orrore della guerra e sul coraggio

Sulle tracce del bambino che morì a El Alamein. Ma credendo nella Patria

Un ragazzino dallo sguardo intenso, con il nastro della croce di ferro di seconda classe sul petto. La divisa che gli cade larga sul corpo. Alle sue spalle un autocarro mal messo arroventato dal caldo del deserto africano.

Il ragazzino rimasto per sempre come cristallizzato in questo scatto in bianco e nero del 1942 si chiamava Sergio Bresciani, è morto soltanto due giorni dopo aver posato per l'obiettivo.

La sua storia, incredibile, è rimasta sepolta sotto la sabbia del tempo come moltissime altre vicende italiane della Seconda guerra mondiale. Forse anche perché è una storia in cui la parola Patria, decisamente passata di moda dopo il conflitto mondiale, dopo quella morte della Patria che è stato l'8 settembre del 1943, compare tante volte.

Per fortuna, però, adesso c'è un piccolo volumetto, a firma di Antonio Besana, delle Edizioni Ares che consente di ricostruire questa vicenda, che qualcosa all'oggi forse ha ancora da insegnare. Si intitola Il bambino di El Alamein (pagg. 176, euro 15,80) e ripercorre il percorso che ha portato Sergio Bresciani a fuggire a ripetizione, minorenne, verso la Libia per tentare di arruolarsi nell'esercito italiano. Un piano poi rocambolescamente riuscito. Un piano che l'ha portato a combattere come artigliere in ripetuti scontri con le truppe inglesi. Tanto da essere decorato direttamente da Erwin Rommel. Un piano che lo ha portato a dare la vita, avendone in cambio una medaglia d'oro, in una lotta disperata per lui conclusasi il 4 settembre 1942 quando una mina fa saltare l'autocarro su cui viaggia, strappandogli la gamba sinistra.

Ma andiamo con ordine e vediamo di riassumere per quanto possibile una biografia straordinaria. Sergio nasce il 2 luglio 1924 a Salò da una famiglia numerosa. Ha un fratello maggiore, Italo, e tre sorelle minori, Ivonne, Tatiana e Liliana. È un ragazzino vivace e ribelle, economicamente la famiglia non naviga in buonissime acque, e lui va a vivere con gli zii a cui i genitori di Sergio son per altro legatissimi. Dopo la sesta elementare Sergio decide di smettere di studiare e di iniziare a lavorare, nonostante la contrarietà degli zii e dei genitori. Ha capito benissimo che una mano per far quadrare i conti serve. È un ragazzo solare e sereno che però non si tira indietro e si rimbocca le maniche e trova impiego alla Falk di Vobarno.

Tutto cambia con l'annuncio dell'entrata in guerra dell'Italia. Qualcosa scatta in lui a partire dal 10 luglio 1940. È cresciuto in una famiglia cattolica dove due dei suoi zii, Dante e Italo, sono morti nella Prima guerra mondiale. C'è un'idea del senso del dovere che va oltre quella che pure la propaganda fascista, pervasiva e aggressiva, ha inculcato a tutti i ragazzini cresciuti nel Ventennio. Così Sergio decide di scappare per raggiungere il fronte, visto che non può arruolarsi nemmeno come volontario (servirebbero 17 anni). Il primo tentativo è un flop completo, i carabinieri lo riacciuffano a Milano. Ci riprova qualche mese dopo con più esperienza. Lo bloccano sempre i militari dell'Arma quando era a Genova in cerca di un imbarco per la Libia. Il terzo tentativo è però quello buono. Parte da Vobarno in sella alla bicicletta rubata al fratello, raggiunge Salò prendendo il traghetto che lo porta a Desenzano del Garda dove prende il treno per Milano. Da lì, venduta la bicicletta, e dopo nuovi interventi dei carabinieri che, però, si limitano ad un foglio di via - troppo poco per fermarlo - si imbarca a Napoli e arriva in Libia. Da lì arriva una sua lettera che chiede il suo permesso per arruolarsi. E poi anche una lettera di un maggiore del Reggimento Artiglieria Celere «Principe Amedeo d'Aosta», le famose Voloire. Spiega che Sergio ha raggiunto il fronte. L'ufficiale è pronto a rimandarlo a casa perché da lì è guerra vera ma «Il suo morale è altissimo». Il permesso arriva e Sergio resta con il reparto. Tra gli artiglieri lo chiamano il «balilla», viene messo come servente ad una batteria. Partecipa all'assedio di Tobruk, combatte senza esitazione tra le cannonate. Come scrisse all'epoca - con la tipica stucchevole retorica che doveva coprire la debolezza materiale delle truppe italiane - il Popolo d'Italia: «Fiori di terra e di fumo sbocciano all'improvviso, sollevati dallo scoppio dei colpi. Il balilla è al suo posto, sereno come sempre, al lavoro al pari dei suoi compagni. Chi può avere un attimo solo di smarrimento se il balilla accoglie ogni compito con il sorriso?».

Ma ripulito il tutto dalla melassa di regime, la realtà appare per quello che è anche nel secondo scontro in cui Sergio è protagonista al bivio di El Adem. La sua batteria ferma venti mezzi corazzati che la stanno aggirando. Sergio e gli altri sparano senza pietà, li fermano e ripiegano. Poi si combatte sulle alture di Ain En Gazala, il «Terzo celere» spara sino a che l'ultimo pezzo efficiente è quello di Sergio, «finché anche il pezzo di Bresciani, che ha visto cadere gli altri compagni al suo fianco, è inutilizzato dalle granate nemiche». È una battaglia difensiva durissima, in cui si intuisce già quello che accadrà ad El Alamein tra il 23 ottobre e il 5 novembre 1942. Rommel decora il balilla con la croce di Ferro. Gli italiani pensano alla medaglia d'argento. Dopo l'esplosione del camion la medaglia arriverà, postuma e d'oro. Nella motivazione si legge anche: «Portava nella batteria che lo accoglieva la poesia sublime della sua fanciullezza eroica. Sempre primo nel pericolo...».

Ma come guardare a questa vita spezzata? Nel libro di Besana ci aiutano a farlo una notevole documentazione, tra cui le lettere di Bresciani, un gran numero di fotografie, la memoria della sorella Liliana direttamente intervistata dall'autore.

Niente nell'eroismo di Bresciani cancella la stupidità della guerra fascista. Però nella vicenda di questo ragazzo un valore come quello di Patria, che per altro sta nella nostra Costituzione democratica, e la sua difesa, fanno capolino in modo prepotente. Quasi risorgimentale. Tanto da risultare straniante per noi, perché oggi pensare ad un adolescente che scappa di casa per difendere il suo Paese sembra folle. Eppure nelle lettere di Sergio Bresciani questa volontà è sempre espressa come un qualcosa di normale e semplice.

E fa pensare il coraggio di morire a diciotto anni in un deserto rovente dove tutto esplode. Ad El Alamein non mancò la fortuna, mancò il buon senso di un'intera nazione. Ma di certo non mancò il coraggio di un ragazzo, anzi di un bambino con una croce di ferro sul petto.

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