Controcultura

Pessoa, l'autore scalzato dalle proprie identità

Ecco l'inventario (con vita e opere) di tutti i geniali personaggi inventati dal poeta portoghese

Pessoa, l'autore scalzato dalle proprie identità

Il primo più che «eteronimo» molti anni dopo lo definì «conoscente inesistente» gli apparve a sei anni, si chiamava Chevalier de Pas, «scrivevo lettere sue a me stesso». Da ragazzino era il 1902, «è il più antico testo in portoghese che si conosca di Pessoa» si firmava Pip; lo stesso anno optò anche per Dott. Pancrácio ed Eduardo Lança. Di quest'ultimo possediamo alcune scabre note biografiche: brasiliano, classe 1878, nato in settembre, versato in economia, lavora a Lisbona per una impresa commerciale; al di là di un reportage dal Portogallo, di suo si conoscono tre raccolte di versi, dai titoli, invero, banali (Foglie d'autunno; Cuore innamorato; I miei miti).

Al posto di un cuore, in pieno petto, pareva avere un caleidoscopio, una tortura in specchi colorati. Fernando Pessoa è il solo autore ad essere stato scalzato dalle proprie svariate identità: esistono le poesie di Álvaro de Campos (in cui «le ossessioni del poeta dandy e decadente, tediato e cosmopolita, snob e anticonformista» si mescolano a una irosa nostalgia; nacque in Algarve, nel 1890, si formò a Glasgow, «intraprese un lungo viaggio in Oriente») e quelle di Alberto Caeiro (biondo, occhi azzurri, malaticcio, tubercolotico, morto troppo giovane, ventiseienne, nel 1915), ad esempio. Bernardo Soares (che Pessoa conobbe «in uno di quei ristorantini della Baixa di Lisbona, dall'aspetto modesto e casalingo e dai prezzi convenienti») è l'autore del Libro dell'inquietudine. Un amico, di recente ritorno dal Portogallo, mi ha donato una ennesima edizione delle poesie di Ricardo Reis (in Italia le edita Passigli), «Orazio greco che scrive in portoghese», monarchico, afflitto dal «rimpianto delle cose perdute», che dal 1919 optò per l'esilio brasiliano.

In Pessoa, l'arte della moltiplicazione delle personalità non ha nulla di pirandelliano o peggio, da camomilla con gli esistenzialisti. Essa è teologia, depurata degli dèi: «Il grado più alto del sogno si raggiunge quando, creato un quadro con personaggi, viviamo tutti loro allo stesso tempo siamo tutte quelle anime insieme e interattivamente», scrive, intorno al 1913, chiudendo, con diabolica ferocia, così: «Questo è il solo ascetismo possibile. Non prevede né fede né Dio. Dio sono io».

Mentre gli autori comuni e canonici inventano personaggi, che eventualmente li affliggono di incubi (come nel Sogno di Dickens di R.W. Buss), Pessoa si moltiplica, si immilla in persone (mica personaggi) che si cibano della sua vita, fino a defraudarlo del genio. Per questo, Teoria dell'eteronimia (pubblicato oggi da Quodlibet, pagg. 300, euro 20; a cura di Vincenzo Russo), che si riferisce ad analogo libro portoghese (Teoria da Heteronímia, 2012, a cura di Fernando Cabral Martins e Richard Zenith), è un libro miliare per i cultori di Pessoa, una specie di mappa celeste delle ipnotiche, variopinte identità, uno spasso per chi vi ha appena messo piede. In sostanza bibliografica: sono raccolti tutti gli scritti di Pessoa dedicati alla speculazione eteronima, branca della filosofia teoretica. Il gusto, in ogni caso, è non fidarsi mai. La dichiarazione denunciata nella fatidica lettera ad Adolfo Casais Monteiro, il 13 gennaio 1935, per dire, è troppo facile, perfino sbrigativa: «Sin da piccolo ho avuto la tendenza a creare intorno a me un mondo fittizio, a attorniarmi di amici e conoscenti che mai sono esistiti» (ma è magnetico, Pessoa, qualche riga dopo, quando, senza dubitare dell'esistenza di quei visi invisibili, dubita della propria, «sono io che non esisto, forse»).

Speleologo del meraviglioso, spacciatore di ombre, scacchista sulla cima dell'abracadabra, Pessoa è superbo quando si sconfigge. «Sono diventato la figura di un libro, una vita letta. Quello che sento (senza che lo voglia) lo sento per scrivere che l'ho sentito», scrive nel 1931; d'altronde, «Ho bisogno di tutta la concentrazione di cui io sia capace per la preparazione di ciò che può esser definito, figurativamente, un atto di magia intellettuale» (1930).

Ogni eteronimo è una specie di Moloch, un Frankenstein, replicante coi sentimenti: Pessoa ne ha evocati così l'Elenco degli eteronimi e degli altri autori fittizi 46. Tra questa folta cittadinanza, ci sono eteronimi inglesi (quanto vorrei leggere le cronache di viaggio di Karl P. Effield, From Hong-Kong to Kudat e il saggio sulla giustificazione del regicidio di Alexander Search), italiani (Giovanni B. Angioletti, «italiano antifascista esiliato a Lisbona», che nel 1926 rilascia una intervista fasulla al quotidiano O Sol in cui dichiara che «O Duce Mussolini è um louco, è un pazzo»), ultramondani (Wardour, «spirito astrale» che inizia a comunicare con Pessoa in inglese nell'estate del 1916). António Mora è il filosofo neopagano recluso in manicomio con Eschilo sotto al braccio; Raphael Baldaya ha profilo da «astrologo e studioso di occultismo»; A.L.R. è «traduttore e commentatore dei Protocolli dei Savi di Sion». Più di tutti, vorrei intervistare Abílio Quaresma, medico, scapolo, magrissimo, fumatore incallito, «appassionato solutore di sciarade, di problemi di scacchi, di rompicapi matematici», morto incidentalmente a New York, che si dilettava nell'investigazione e nella scrittura di gialli. Più di altri, amo Maria José, poveretta, ha 19 anni, afflitta da paralisi alle gambe: l'unica cosa che ha scritto è una lettera ad António, fabbro, «perché se non scrivo crepo»; non vede altro che la strada dove il tizio passeggia, forse ne è innamorata, per didattica d'alterità, ma la missiva, va da sé, non potrà mai lasciare la stanza in cui è reclusa. Questo eteronimo, l'estremo, meriterebbe un romanzo. Nel circo delle maschere, Thomas Crosse (professione: critico) divulga l'opera di Alberto Caeiro, di cui possediamo un ricordo commosso vergato dal discepolo Álvaro de Campos (che nella rissa della memoria cita anche Ricardo Reis e António Mora), in un viavai di eteronimi omaggi.

D'altronde, è come se Pessoa, per tutta la vita, non avesse tentato altro che creare il suo assassino. «Fernando Pessoa non ha intenzione di pubblicare... libro o libello che sia», ammette, in una Tavola Bibliografica del 1928. Quando morì, l'ultimo giorno di novembre del 1935, tutti i suoi sé, indipendenti e lunari, non più apocrifi, si diedero appuntamento davanti alla tomba. Nel proprio viso, infine, ciascuno riconobbe lo stampo del creatore.

Se lo mangiarono.

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