Petri, carezze e graffi a "papà" Manganelli

Romana Petri (nome d'arte di Romana Pezzetti) dopo gli omaggi letterari a Jack London ("Figlio del Lupo") e al padre Mario Petri ("Le serenate del Ciclone"), dedica un romanzo a Giorgio Manganelli.

Sorriso di talpa, profilo di tapiro e un «paio di baffetti castorini sopra due labbra ammorbidite e scure come la carne andata a male». Paragoni disturbanti presi dal regno animale, lo stesso che in pagine celebri veniva risucchiato in un inferno o paradiso araldico dove si sentiva a suo agio: basta poco per mettere a fuoco il volto di Giorgio Manganelli, fra i massimi autori del Novecento. Talmente poco che viene voglia di rivolgergli contro la sua teoria della letteratura come menzogna attraverso un libro che è un romanzo vero e falso, un'autobiografia ineccepibile e tuttavia basata su un'operazione spregiudicata.

A cimentarsi nell'impresa è stata una scrittrice sulfurea nonché maestra di humor nero, Romana Petri: quando era una ragazza la madre le disse che se avesse voluto tentare la carriera letteraria avrebbe dovuto sottoporre i suoi conati narrativi allo scrutinio dello scrittore che più stimava. Scelse Manganelli, che a dir poco venerava, e non sbagliò, all'approvazione seguì la pubblicazione. In Cuore di furia (Marsilio) si sdebita immaginando di esserne la figlia. Proprio così, la figlia. Si deforma il nome in Norama Tripe - guai a pronunciarlo all'inglese, è l'anagramma di Romana Petri - e attingendo a un materiale aneddotico ormai cospicuo, perché sono numerosi gli opuscoli che frugano nella vita di Manganelli (per tacere di quelli che con un eufemismo vengono liquidati come «comunicazioni personali», i pettegolezzi), racconta la storia di una bambina abbandonata dal padre. La lambretta con la quale l'autore di Hilarotragoedia fuggì da Milano negli anni Cinquanta, alleggerendo i congiunti di più di un fastidio, per rifugiarsi in un'accogliente Roma diventa un trattore rubato a un contadino che viaggia da Barcellona a Siviglia. La compagna di Manganelli, Ebe Flamini, è ribattezzata Dolores («ti sei scelto una teoria troppo difficile da mettere in pratica», osserva in un passo eloquente). Anche il funzionario editoriale cui Manganelli dovette il suo ingresso trionfale nella storia delle patrie lettere subisce una metamorfosi ispanica, con un omaggio implicito all'altro alchimista del verbo di quegli anni, il Gadda della Cognizione del dolore. Ma al centro del romanzo c'è lei, Norama: che un giorno decide di andare a cercarlo, il padre uccel di bosco. Ristabiliti i contatti, diventata una consuetudine la spola fra Barcellona e Siviglia, metterà in crisi un genitore oppresso da una missione letteraria che impone una rigida separazione fra gli appunti destinati alla pubblicazione e gli scartafacci da destinare alla spazzatura, scartafacci che Norama vorrebbe invece consegnare agli editori: «Faccio un esempio: del tale aforisma solo la parola viciniore, tutto il resto nella fogna, ma quel viciniore potrà magari un giorno servirmi». Inevitabile che alla morte dello scrittore scoppi una guerra santa condotta a suon di manoscritti, carte ritrovate e appunti raschiati dal fondo dei cassetti: con Dolores calata nel ruolo dell'implacabile esecutrice testamentaria, occhiuta non meno che cauta, missione che il grande paranoico le aveva affidato; e Norama in quello della generosa, avventata dispensatrice di inediti. Tutto vero, e tutto inventato.

Chissà come l'ha presa la figlia di Manganelli: ma quella vera, Lietta. Avrà pensato con orrore al rito perverso degli changelings, l'usanza già medievale di abbandonare per una mezz'oretta nel bosco i bambini nella speranza che gli gnomi, o qualche santo del calendario cattolico, li scambino con un altro esemplare.

Oppure si sarà detta che in fondo, usurpazione della memoria a parte, non sono in tanti a poter vantare un'autobiografia per interposta persona. Diabolico Manganelli, che a più di trent'anni dalla scomparsa non smette di confondere le carte.

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