Il petrolio sfiora quota 143 dollari ma le Borse contengono le perdite


La febbre da petrolio continua a salire. Anche in assenza di nuove minacce di blocchi produttivi da parte della Libia; anche in mancanza delle previsioni rese note giovedì dall’Opec di un barile proiettato entro l’estate a 170 dollari. Le quotazioni sembrano procedere al rialzo per inerzia, prive come sono di pesi ribassisti di una certa consistenza. Ieri, a New York, hanno sfiorato i 143 dollari (142,90 il picco di giornata), oltre due dollari in più rispetto all’infuocata seduta dell’altroieri. Il grande allarme non è insomma cessato. Anzi, risuona più forte che mai. Alta inflazione, crescita singhiozzante: è lo scenario peggiore, quello della stagflazione, che assume contorni sempre più definiti. Le Borse lo sanno, ma ieri i crolli di giovedì non si sono ripetuti, con le perdite contenute sotto al punto percentuale (meno 0,45% Milano) anche a Wall Street (meno 0,89% il Dow Jones, meno 0,26% il Nasdaq), nonostante il tonfo della fiducia dei consumatori, sceso ai minimi da 28 anni. Se il bilancio settimanale manifesta il pessimismo generalizzato tra gli investitori (Piazza Affari ha lasciato sul campo il 2,16%), quello del primo semestre è catastrofico essendo il peggiore degli ultimi 21 anni: i listini europei hanno visto svaporare qualcosa come 1.830 miliardi di ricchezza borsistica, a causa di una flessione superiore al 21 per cento.
La prossima settimana i mercati potrebbero inciampare nel probabile aumento dei tassi di parte della Bce, deciso per contrastare l’impennata dei prezzi. È di ieri la notizia che in Germania l’inflazione è salita in giugno al 3,3%, tornando quindi ai livelli del 1993.

Benché il numero uno dell’Eurotower, Jean-Claude Trichet, abbia già preparato i mercati alla stretta, un rialzo di un quarto di punto del costo del denaro rischia di indebolire il dollaro (ieri a 1,5170 rispetto all’euro), di infiammare ulteriormente le quotazioni del greggio e di trascinare al ribasso le Borse.
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