Roma - «L’esortazione è un importante contributo all’applicazione del Concilio. Non intende mettere in ombra la riforma liturgica di Paolo VI, ma riequilibrare il rito nelle sue dimensioni fondamentali, quella orizzontale dell’assemblea eucaristica con quella verticale, derivata dal suo significato divino più profondo». Così il cardinale Scola ha sintetizzato il significato del più lungo documento pubblicato fino ad oggi da Benedetto XVI, l’esortazione Sacramentum caritatis, che «con significative novità dottrinali» e «almeno cinquanta elementi di novità pratiche e pastorali» intende rilanciare la liturgia cattolica a partire dalla centralità dell’eucaristia.
Si tratta di un’evidente correzione di rotta, frutto del lavoro del sinodo ma anche di cinquant’anni di riflessione dello stesso Ratzinger. Due elementi sui quali c’era stata qualche attesa sono la comunione ai divorziati risposati (che si continua a negare specificando però che essi appartengono alla Chiesa) e il celibato dei preti. Su quest’ultimo punto il Pontefice è chiarissimo: «rappresenta una speciale conformazione allo stile di vita di Cristo», per questo ne viene confermato «l’obbligo».
Per quanto riguarda il rito vero e proprio, Benedetto XVI spiega che il sacerdote deve evitare «tutto ciò che può dare la sensazione di un proprio inopportuno protagonismo». Il Papa quindi ribadisce che «le bellezza della liturgia è parte del mistero pasquale» e «non è un fattore decorativo» ma «l’elemento costitutivo dell’azione liturgica». Si parla quindi della partecipazione attiva dei fedeli, uno degli obiettivi della riforma conciliare, precisando però che «il primo modo» in cui questa «si favorisce» è «la celebrazione adeguata del rito stesso», che deve scaturire «dall’obbedienza fedele alle norme liturgiche nella loro completezza, poiché è proprio questo modo di celebrare ad assicurare da duemila anni la vita di fede di tutti i credenti». Spetta al vescovo «salvaguardare la concorde unità delle celebrazioni nella sua diocesi». Parole importanti, dato che non sono infrequenti forme di creatività che talvolta sconcertano i fedeli.
Benedetto XVI parla poi dei canti: «Davvero, in liturgia non possiamo dire che un canto vale l’altro. A tale proposito – spiega – occorre evitare la generica improvvisazione o l’introduzione di generi musicali non rispettosi del senso della liturgia». Il canto, insomma, «deve corrispondere al senso del mistero celebrato». Basta, dunque, a preghiere salmodiate con le note dei Beatles, o ritmi che non si confanno ai testi. «Infine desidero – aggiunge il Papa – che venga adeguatamente valorizzato il canto gregoriano». Lo hanno chiesto i padri sinodali, lo aveva stabilito, inascoltato, il Concilio.
Nel documento si spiega inoltre che l’omelia non deve essere «generica o astratta», e che bisogna evitare eccessi al momento della processione all’offertorio e allo scambio del segno di pace. Ratzinger ribadisce inoltre l’importanza della devozione e dell’adorazione eucaristica, sottolineando «l’importanza dell’inginocchiarsi» di fronte all’ostia consacrata e invita a un’adeguata catechesi al riguardo.
Significativi, infine, gli accenni all’uso della lingua latina. Il Papa chiede che sia utilizzata nelle celebrazioni internazionali e che «i futuri sacerdoti, fin dal tempo del seminario, siano preparati a comprendere e a celebrare la santa Messa in latino, nonché a utilizzare testi latini e a eseguire il canto gregoriano». Inoltre, «non si trascuri la possibilità che gli stessi fedeli siano educati a conoscere le più comuni preghiere in latino, come anche a cantare in gregoriano certe parti della liturgia».
L’ottica del documento è quella che Benedetto XVI aveva spiegato alla Curia alla vigilia del Natale 2005: interpretare il Concilio come una riforma nella continuità della tradizione, non come una rottura totale col passato. In questo senso si colloca la decisione di pubblicare un Motu proprio, atteso nei giorni precedenti la Pasqua, con il quale sarà liberalizzato l’uso dell’antico messale preconciliare di San Pio V.
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