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Più utili e dividendi per la multinazionale Enel

L’ad Fulvio Conti ha presentato a Londra bilancio 2010 e piano industriale. Il costoso acquisto di Endesa pesa sui debiti ma rafforza la presenza nei Paesi in crescita. È però la cassa fatta in Italia a tenere alta la redditività. Le sfide per il futuro

Più utili e dividendi per la multinazionale Enel

Si tratta di una delle po­che, pochissime multinazio­nali italiane. E si vede. Ieri l’Enel, il suo ad Fulvio Conti e il presidente Piero Gnudi, hanno presentato i conti e il piano industriale per i pros­simi tre anni a Londra. Met­tiamo subito in fila qualche numero per dare il sapore di questa azienda. I ricavi so­no pari a 73 miliardi e gene­rano un margine lordo di cir­ca 17,5 miliardi, il risultato più alto tra le utility euro­pee. L’azienda ha un bel po’ di debiti: poco meno di 45 miliardi. Sono in gran parte figli della costosa acquisizio­ne della spagnola Endesa: che tra capitale e debito è co­stata la bellezza di 55 miliar­di. Il servizio di questo debi­to è sotto controllo. L’ad so­stiene che sia inferiore al 5% e soprattutto che per i prossi­mi sette anni è bloccato là. Conti lo ha ridotto più del previsto, non solo per le di­smissioni e le quotazioni di alcune sue partecipate, ma anche grazie ad un’opera­zione una tantum sul capita­le circolante (per esempio cedendo alcuni crediti e por­tando così a casa subito un beneficio) di circa tre miliar­di. Più della metà dei ricavi e dei margini arriva ormai dal­­l’estero, grazie proprio al­l’acquisizione di Endesa. E il mix produttivo è certamen­te molto più equilibrato di quello della sola Enel all’ita­liana: basti pensare che tra nucleare, idroelettrico e rin­novabili, la metà dell’ener­gia che genera il colosso con base a Roma non genera Co2. Conti e Gnudi conti­nuano a spingere il piede sull’acceleratore dei divi­dendi. In effetti hanno utiliz­zato un po’ di riserve per pompare l’utile netto di gruppo e riconoscere un monte cedole da 2,6 miliar­di. Manna per i milioni di piccoli azionisti che parteci­parono in massa alla più grande Ipo italiana. E ovvia­mente anche per il Tesoro che, forte del suo 30 per cen­to, si vede staccare ogni an­no un pesante assegno mi­liardario. Certo con un debi­to da 45 miliardi qualcuno potrebbe pretendere che si faccia prima pulizia dei con­ti e poi si inizi a banchettare con le cedole: il mercato, al­la ricerca di titoli redditizi, sembra però apprezzare questa scelta. Fin qui i numeri. Che rac­contano però una storia di successo. Insomma la priva­tizzazione dell’Enel non può certo essere confronta­ta con quella della sorellina (in termini di padre pubbli­co) Telecom. I due mandati di Conti (che con ogni buo­na ragionevolezza dovreb­be essere ora rinnovato, pro­babilmente in abbinata con il presidente Gnudi) hanno reso Enel uno dei pochi player italiani che può affac­ciarsi all’estero. L’acquisto degli spagnoli si è rivelato molto caro. Ma non c’erano alternative. E oggi permette al gruppo di essere presente in quaranta Paesi. Tra cui il Sud America che continua a crescere a ritmo sostenuto. L’Italia, dal punto di vista della generazione di ener­gia, resta infatti importante, ma con volumi decrescenti. Accendiamo meno lampadi­ne, mentre nel resto del mondo Enel sono tutti lì at­taccati agli interruttori. Sen­za la cassa italiana Conti an­drebbe poco lontano: sono le tariffe del Belpaese che rendono ancora florida l’azienda. E specularmente drenano risorse dal sistema produttivo. Per essere un po’ estremi si può dire che il lusso di avere questa multi­nazionale è un po’ anche a carico del sistema paese che ne sopporta le tariffe. Sia chiaro: la procedura è molto simile anche per gli altri co­lossi dell’elettricità conti­nentale che per un verso e per l’altro godono di forti protezioni nazionali (si pen­si solo al costo che i contri­buenti francesi devono sop­portare per il sostanziale monopolio Edf).

La vera sfida di Conti per i prossimi anni sarà quella di costruire i piani alti di que­sta multinazionale. Tenere a bada il debito. Rendere sempre più forti le sinergie con il mondo Endesa. E af­frontare rimodulazioni tarif­farie nei paesi protetti.

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