Si tratta di una delle poche, pochissime multinazionali italiane. E si vede. Ieri l’Enel, il suo ad Fulvio Conti e il presidente Piero Gnudi, hanno presentato i conti e il piano industriale per i prossimi tre anni a Londra. Mettiamo subito in fila qualche numero per dare il sapore di questa azienda. I ricavi sono pari a 73 miliardi e generano un margine lordo di circa 17,5 miliardi, il risultato più alto tra le utility europee. L’azienda ha un bel po’ di debiti: poco meno di 45 miliardi. Sono in gran parte figli della costosa acquisizione della spagnola Endesa: che tra capitale e debito è costata la bellezza di 55 miliardi. Il servizio di questo debito è sotto controllo. L’ad sostiene che sia inferiore al 5% e soprattutto che per i prossimi sette anni è bloccato là. Conti lo ha ridotto più del previsto, non solo per le dismissioni e le quotazioni di alcune sue partecipate, ma anche grazie ad un’operazione una tantum sul capitale circolante (per esempio cedendo alcuni crediti e portando così a casa subito un beneficio) di circa tre miliardi. Più della metà dei ricavi e dei margini arriva ormai dall’estero, grazie proprio all’acquisizione di Endesa. E il mix produttivo è certamente molto più equilibrato di quello della sola Enel all’italiana: basti pensare che tra nucleare, idroelettrico e rinnovabili, la metà dell’energia che genera il colosso con base a Roma non genera Co2. Conti e Gnudi continuano a spingere il piede sull’acceleratore dei dividendi. In effetti hanno utilizzato un po’ di riserve per pompare l’utile netto di gruppo e riconoscere un monte cedole da 2,6 miliardi. Manna per i milioni di piccoli azionisti che parteciparono in massa alla più grande Ipo italiana. E ovviamente anche per il Tesoro che, forte del suo 30 per cento, si vede staccare ogni anno un pesante assegno miliardario. Certo con un debito da 45 miliardi qualcuno potrebbe pretendere che si faccia prima pulizia dei conti e poi si inizi a banchettare con le cedole: il mercato, alla ricerca di titoli redditizi, sembra però apprezzare questa scelta. Fin qui i numeri. Che raccontano però una storia di successo. Insomma la privatizzazione dell’Enel non può certo essere confrontata con quella della sorellina (in termini di padre pubblico) Telecom. I due mandati di Conti (che con ogni buona ragionevolezza dovrebbe essere ora rinnovato, probabilmente in abbinata con il presidente Gnudi) hanno reso Enel uno dei pochi player italiani che può affacciarsi all’estero. L’acquisto degli spagnoli si è rivelato molto caro. Ma non c’erano alternative. E oggi permette al gruppo di essere presente in quaranta Paesi. Tra cui il Sud America che continua a crescere a ritmo sostenuto. L’Italia, dal punto di vista della generazione di energia, resta infatti importante, ma con volumi decrescenti. Accendiamo meno lampadine, mentre nel resto del mondo Enel sono tutti lì attaccati agli interruttori. Senza la cassa italiana Conti andrebbe poco lontano: sono le tariffe del Belpaese che rendono ancora florida l’azienda. E specularmente drenano risorse dal sistema produttivo. Per essere un po’ estremi si può dire che il lusso di avere questa multinazionale è un po’ anche a carico del sistema paese che ne sopporta le tariffe. Sia chiaro: la procedura è molto simile anche per gli altri colossi dell’elettricità continentale che per un verso e per l’altro godono di forti protezioni nazionali (si pensi solo al costo che i contribuenti francesi devono sopportare per il sostanziale monopolio Edf).
La vera sfida di Conti per i prossimi anni sarà quella di costruire i piani alti di questa multinazionale. Tenere a bada il debito. Rendere sempre più forti le sinergie con il mondo Endesa. E affrontare rimodulazioni tariffarie nei paesi protetti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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